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Baccini: «De André mi diceva che a 28 anni ero uguale a Tenco"

A Sanremo è andato una volta sola ma è stato premiato con due Targhe Tenco. Cantautore imprevedibile, ironico e, dice lui, sottovalutato. A fine settembre uscirà su Amazon Prime il suo docufilm su Luigi Tenco, Tu non hai capito niente. Baccini racconta:

«A 28 anni ero uguale a lui. Arbore, De André e Dalla erano impressionati dalla somiglianza. Fabrizio mi parlava come se ci conoscessimo da duecento anni, ogni tanto mi chiamava Luigi: “Fumate anche allo stesso modo”»
«Ci siamo conosciuti perché Dori Ghezzi lo portò al mini-concerto per la presentazione del mio primo disco, Cartoons. Li avevo intravisti dal palco, ma pensavo fosse un miraggio. Invece alla fine della serata Fabrizio mi invitò a cena a casa sua. È iniziata così ed è andata avanti fino alla sua morte. De André non dormiva la notte, io neanche. Facevamo mattina a parlare di qualsiasi cosa, con me rideva molto».
«Il numero uno tra i miei punti di riferimento. Tragicomico, il più poeta di tutti, anche se non è riconosciuto perché in Italia l’ironia è di serie B. Mi definiva un errore temporale: “Hai meno anni di noi ma sei dei nostri”. Aveva aperto un locale, La bolgia umana, sempre vuoto. Mi diceva: “Dai, andiamo a mangiare lì, almeno ci saranno due persone».

Baccini e Lucio Dalla:

«Ero stato invitato a una rassegna in provincia di Avellino con nomi pazzeschi. La sera del mio concerto piove e l’organizzatore mi propone di esibirmi il giorno dopo con Lucio. Ero uno sconosciuto, salgo sul palco e Dalla mi fa: “Bac ora sono c… tuoi”. Io canto due, tre, dieci pezzi e la gente continua ad applaudire. Alla fine mi chiede: “Cosa fai martedì? C’è l’ultimo concerto mio e di Morandi a Urbino. Vieni?». Suonai davanti a duemila persone».

Non è stato facile per un timido come Baccini:

«Canto con gli occhi chiusi. A scuola per farmi gli scherzi mi eleggevano rappresentante di classe. Durante le assemblee mi nascondevo in bagno per non parlare davanti agli altri».

Baccini racconta i suoi primi contatti con la musica:

«Al mare, da piccolo, mi attaccavo al jukebox, tenevo il tempo con la testa e battendo il piede. A 9 anni, per Natale i miei genitori mi regalarono l’organetto Bontempi e mi mandarono a lezioni di piano. Con un gruppetto di amici avevamo l’abbonamento per i concerti del lunedì, fra loro c’era un tipo serioso, Fabio Luisi, ora è uno dei più importanti direttori europei».

A vent’anni cantava nei locali di Genova.

«Almeno lì mamma non mi poteva controllare. A casa, quando intonavo qualche canzoncina urlava dalla cucina: “Mica stai cantando?”. Poi cominciai a scrivere i miei brani. Erano strani… Quando ascoltò Figlio unico voleva chiamare lo psicoterapeuta».

A 23, Baccini finì al porto di Genova come suo padre e suo nonno.

«Camallo per un anno, poi mi spedirono in amministrazione. “Farai carriera”, dicevano. Papà non c’era più, mia sorella studiava, il capofamiglia ero io. Non era la vita che volevo. Pensavo: se rimango qui dentro divento un serial killer. Facevo casini e continuavano a spostarmi da un’ufficio all’altro. Mi misero al centralino. Ma m’annoiavo e iniziai a fare numeri a caso in tutto il mondo: “Hallo, here is Porto di Genova”. Quando arrivò la bolletta del telefono quadruplicata si spazientirono: “Baccini, questa è l’ultima volta, qui non puoi sbagliare”.

Continua:

«Stavo in una stanza, da solo. Il mio compito era, una volta al mese, prendere i tabulati del centro meccanografico e metterli in una macchina che tagliava le buste paga. Sono durato trenta giorni. Pensavo di aver fatto un lavoro perfetto. Mi chiamò la direzione: “Non ti far vedere per i prossimi venti giorni ci sono diecimila operai che ti vogliono uccidere”. Avevo sbagliato e per la prima volta il Porto di Genova posticipò di dieci giorni la consegna degli stipendi. Ne approfittai, diedi la liquidazione a mamma, le lasciai un biglietto e scappai a Milano con 100 mila lire in tasca, sulla mia Renault 9 a gas, aveva un vetro rotto e un faro spaccato. Vivevo in macchina come un barbone. Suonavo in un locale in cambio della cena».

Quali errori non rifarebbe?

«Non me ne andrei via dalla major discografica, lì avevo la mia storia, invece ho sparpagliato i miei album in cinque etichette differenti. E non farei Music Farm. In quel periodo avevo subito una truffa gigante dal mio ex manager. Mi sono svegliato una mattina e non avevo più niente. Siccome non ho il file della depressione ho ricominciato daccapo e accettai di andare in tv perché mi offrirono un cachet importante. Dopo un po’ lì dentro pensi che non uscirai più. Ero impazzito. Mi sembrava di fare un viaggio senza ritorno in una navicella che va su Marte con Iva Zanicchi».

E l’infatuazione per Dolcenera? Baccini:

«È nata perché gli autori mi dicevano: “Sai che parla sempre di te?”. Io manco me ne accorgevo, ma ho finito per crederci».
 

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(fonte ilnapolista.it)



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