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DEPECHE MODE: enjoy the electronic

Sono stati tra i pionieri del pop elettronico, agli albori degli anni 80. Hanno creato un suono inconfondibile, che è sopravvissuto a crisi personali, mutamenti di mode e svolte generazionali. Dopo oltre trent'anni d'onorata carriera, la ditta Depeche Mode da Basildon è ancora in pista. L'elisir di lunga vita della band che inneggiava ai "Blasphemous Rumours"


DEPECHE MODE: enjoy the electronic

Che cosa vedete se dico "rock"? Ognuno di noi associa questa parola a immagini che l'hanno segnato da giovane, e chi era adolescente e guardava Videomusic nel 1993 probabilmente ne ha una: il volto luciferino di Dave Gahan sullo sfondo di un lugubre castello, affiancato da creature figlie di Cranach e Bosch nel video di "Walking In My Shoes", diretto da Anton Corbjin.


Chi volesse ripercorrere all'indietro la strada per l'inferno che aveva condotto i Depeche Mode e il loro cantante a quell'incubo incapperebbe in un album di fotografie a tratti imbarazzanti. Video come quello di "Just Can't Get Enough" sono infatti simili a quei filmini adolescenziali che ci vergogniamo a riguardare una volta compiuta la maggiore età. Eppure è da una innocenza come quella che si può arrivare a canzoni di esperienza come "Walking In My Shoes": canzoni di fede e di devozione.


I Depeche Mode da Basildon, nell'Essex, vicino Londra, sono stati infatti esponenti di spicco dell'elettropop, ma la loro carriera ha visto anche l'evoluzione da un suono scanzonato e morbido ad atmosfere cupe e angosciate, con la svolta dei primi anni 90.


La storia di una delle band-chiave del synth-pop britannico inizia nel 1977 quando Andrew Fletcher e Vince Clark incontrano Martin Gore e insieme fondano i Composition Of Sound, nome che cambieranno (fortunatamente) qualche mese dopo, quando i tre sentiranno la necessità di un frontman, rinvenuto in un giovanotto che si cimenta in un locale con la cover di "Heroes" di Bowie. La voce calda di Dave Gahan entra nel gruppo, che decide di abbandonare definitivamente gli strumenti acustici per dedicarsi a tempo pieno all'uso dei sintetizzatori e della musica elettronica. Il riferimento principale dei primi Depeche Mode sono decisamente i Kraftwerk, e il successo riscosso durante le prime esibizioni dal vivo fa cercare alla band una casa discografica che possa pubblicare i loro primi lavori.


Quando li vede esibirsi in un locale con dei synth appoggiati su supporti di fortuna, Daniel Miller della Mute si stupisce del valore della prima canzone ma si aspetta che, come in tanti altri casi, si tratti della classica apertura col botto di chi ha una sola carta da giocarsi. Quando però seguono un secondo brano e poi altri ancora, allo stesso livello, i giochi sono fatti: nasce così un sodalizio senza il quale la storia dei Depeche Mode non sarebbe quella che conosciamo.


Nel 1981 viene dato alle stampe il primo singolo, "Dreaming Of Me", prodotto dallo stesso Miller. Dopo l'uscita del secondo singolo, "New Life", i Depeche Mode capiscono che l'ascesa al successo si sta concretizzando. Lasciano dunque le loro occupazioni, dopo essersi esibiti alla famosa trasmissione della Bbc "Top of the pops". È il terzo singolo a dare lo slancio definitivo ai Mode, che piazzano "Just Can't Get Enough" all'ottavo posto della chart inglese. Il brano è il primo classico del gruppo, con una melodia molto semplice e accattivante (sarà anche uno degli inni principali delle discoteche gay dei primi anni 80). Nell'ottobre del 1981 gli fa seguito il debutto ufficiale su album.


Speak And Spell (1981) è una raccolta di canzonette elettroniche spudorate e trascinanti. Dalle cantilene di "Boys Say Go!" e "Puppets" alle più cadenzate "No Disco" e "Tora! Tora! Tora!" è una parata di ritmiche gommose e ballabili, di synth scintillanti come luci al neon, un condensato di pura melodia pop senza alcuna pretesa o paludamento intellettualistico: puro divertimento, e scusate se è poco.


Vertice assoluto è la maestosa vertigine disco di "Photographic", destinata a rimanere nelle orecchie di molti, tra cui i Bluvertigo di "Altre forme di vita".


Dopo il tour avviene una rottura tra Vince Clark (che fonda gli Yazoo) e il resto della band: il destino è incerto, così Martin Gore (già autore di due brani del disco d'esordio) decide di assumersi il ruolo di songwriter.


Depeche ModeIl risultato di questo salto nel buio è un gioiellino come A Broken Frame del 1982. La prima facciata è la più sorprendente, introdotta dalla battuta lenta e dalle atmosfere solenni e romantiche di "Leave In Silence", prosegue in un'atmosfera di densa malinconia autunnale, fino alle brume del singolo "See You". Anche questo, per quanto accattivante, è pervaso da un gusto per i climi notturni che prima era appena accennato, e che è in grado di trasfigurarne il semplice testo adolescenziale in qualcosa di più intrigante. Soprattutto, la voce di Gahan, qui già più profonda e baritonale, si sposa perfettamente con questi nuovi ambienti sonori: sono nati i Depeche Mode come li conosciamo.


La parte più innovativa dell'Lp sono però le sonorità dure e i ritmi pulsanti di "Monument"e "My Secret Garden", nonché la romantica corsa notturna dello strumentale "Nothing To Fear". Il secondo lato mostra cose più simili ai Depeche Mode "leggeri" del primo album, come "The Meaning Of Love", ma è destinato a chiudersi con un'altro inno da spleen adolescenziale, la dolce sonata di "The Sun and the Rainfall": il caldo della voce di Gahan e il freddo dell'elettronica, l'amore romantico in vesti di plastica e latex, secondo i dettami degli anni Ottanta.


La malinconia sospesa di questo disco non avrà seguito, perché la band, in mezzo a una sequela di hit quasi ininterrotta (tra cui una ruffianissima "Get The Balance Right") condurrà su album come Construction Time Again, dell'83, e Some Great Reward, dell'anno seguente, un percorso di continua evoluzione. Uno dei tratti fondamentali di questo processo è l'inasprirsi continuo dell'elemento ritmico, con l'inserzione di martellanti drum machine e di stranianti sonorità metalliche. Questi elementi provengono da un gusto per i suoni "trovati" e per una pratica di proto-campionamenti derivata dall'industrial. Fondamentale per questo è l'ingresso in formazione di Alan Wilder nel ruolo di arrangiatore e artefice del suono (oltre che autore di alcuni pezzi).


Brani come "Everything Counts" e "Master And Servant" riescono a traghettare nell'ambito del singolo da discoteca queste innovazioni, producendo un effetto di straniamento che è quello della migliore pop music: sperimentazione sui suoni e ritornelli da cantare in coro. Il melodismo travolgente degli esordi non è mai tradito o messo in discussione, ma è anzi esaltato da suoni corposi, oscuri, sexy. Una formula d'oro per una band che saprà far convivere successo e qualità artistica, alla faccia dei detrattori e degli alfieri della classicità rock.


Construction Time Again è sicuramente un momento chiave, e lo si capisce dalla "Love In Itself" d'apertura che, pur essendo un singolo, presenta un suono più fisico, una costruzione sonora più complessa, un'atmosfera più scura di quanto la band abbia mai fatto in precedenza. Il pop viene distorto e complicato da torbidi (mal)umori post-punk, soprattutto nei brani più lenti e d'atmosfera. Tra questi, "Pipeline", una sorta di work song futuristica cantata da Gore sopra a un lento e marziale accompagnamento ritmico, e una "The Landscape Is Changing" destinata ad aprirsi in una coda evocativamente dark.


"Everything Counts", il pezzo forte, è invece un capolavoro pop: un saggio sociologico sugli anni Ottanta sostenuto da un basso sintetico dal tiro inarrestabile e da un corredo di suoni stranianti di cornamuse, flauti e percussioni varie. Dave Gahan è ormai un mattatore ed il brano si trasformerà dal vivo in un delirio collettivo: indimenticabile la scena del video "101" (del 1987) con la folla immensa del Rose Bowl di Pasadena che agita all'unisono le braccia, guidata dal cantante, intonando il coro più cinico della storia: "The grabbing hands grab all they can/ everything counts in large amounts...".


Some Great Reward presenta i cambiamenti ormai assimilati e un gruppo ormai pronto a spiccare il salto. "Something To Do" mette subito in campo un arrangiamento lussureggiante per accumulo di particolari e stratificazioni di suoni, che è tutto il contrario della semplicità dei dischi precedenti all'ingresso di Wilder. Questa scelta stilistica si rivela una strada senza ritorno, caratterizzando l'intero Lp. Melodie di facile presa come quelle di "People Are People" e "Master And Servant" si trovano così immerse in una cornucopia di effetti di ogni genere, a volte anche bizzarri, ad evidenza del senso di libertà provato da una band che si sta avventurando in un campo tecnologico inesplorato, privo di punti di riferimento.


Il coraggio paga e le porte del successo si aprono anche negli Usa. Agli estremi dello spettro ormai variegato coperto dalla band sono altri due brani chiave: il romanticismo soulful della ballata pianistica "Somebody", eseguita in solitaria da Gore, e l'incubo percussivo di una "Blasphemous Rumours" nera come la pece almeno fino alla schiarita del ritornello: "I don't wanna start any blasphemous rumours/ but I think that God 's/ got a sick sense of humour/ and when I die/ I expect to find Him laughing".


Negli anni Novanta il periodo dei primi quattro album ha subito un'opera di "revisionismo storico" da parte di un Gore disposto a dichiarare che "la vera storia dei Depeche Mode comincia con 'Black Celebration'" e a escludere i vecchi pezzi dalle scalette dei concerti. Ora che l'elettronica è diventata il suono predominante della musica pop non c'è più alcun motivo di credere a queste parole, e non resta che considerare queste opere come parte di una evoluzione stilistica in realtà piuttosto graduale.


Depeche ModeIn effetti è però innegabile che Black Celebration nel 1986 abbia operato una svolta decisiva nella musica dei Depeche Mode. La voce di Gahan si fa più cupa, ma mantiene il fascino che aveva mostrato in alcuni episodi dei precedenti album. Le sonorità sono decisamente più mature, con Gore che ha imparato a dosare le tastiere in modo da creare atmosfere oniriche (la title track, "Stripped"), che non rinunciano a riff aggressivi ("A Question Of Time") e a momenti di dolcezza ("Sometimes" e "A Question Of Lust").


Dall'epico crescendo di "Black Clebration" fino alla desolazione di "New Dress", l'album propone un suono stratificato e denso, che poco ha ormai a che fare con l'elettropop e molto, come attitudine e sonorità, col rock da stadio. Poco importa che le chitarre ci siano o meno, un pezzo come "Flies On The Windscreen", col suo macabro accompagnamento di vocalizzi ansimanti, è un vero è proprio anthem negativo, colonna sonora per uscite notturne votate alla decadenza.



Il cuore del disco è la liturgia solenne di "Stripped", dove muri di tastiere chiesastiche si trovano ad avvolgere la voce del Gahan più macho e sexy mai sentito: sacro e profano, come nel blues, e la linea dei "Blasphemous Rumours" è destinata a continuare.


Il momento "cupo" della band continua con Music For The Masses (1987), che contiene due dei pezzi più belli dei Depeche Mode versione "rock": "Never Let Me Down Again" e "Behind The Wheel".


Il disco ha un suono meno pittorico del precedente, e decisamente scultoreo, i bassi sembrano scavati nel marmo, mentre continuano le dense sovrapposizioni di tastiere elettroniche. "Never Let Me Down Again" è un inno rock da ascoltare in macchina a tutta velocità, esaltandosi ad ogni montare del refrain pianistico sull'onda del denso corpo sonoro. "Behind The Wheel" riporta in discoteca questo suono oscuro e fatalista, mentre la più cadenzata "Strangelove" propone un Gahan ormai dannato nel suo abbandonarsi agli eccessi e ai peccati della notte.


I Depeche Mode hanno ormai fatto loro il connubio tra paesaggi sonori desolati e ritmi ballabili che già aveva reso forti certe produzioni di Moroder o "Blue Monday" dei New Order, ma sono intenzionati a fare della musica elettronica uno spettacolo da arene rock. Il culmine della loro ambizione populista sarà raggiunto nell'epico concerto al Rose Bowl di Pasadena immortalato da D.A. Pennebaker nel video "101".


Con quest'ultimo disco comincia intanto la fase dei video in bianco e nero dei Mode, girati da Anton Corbjin (futuro regista del film "Control" su Ian Curtis), decisamente suggestivi e di ispirazione dark. Martin Gore mette un po' da parte i synth per dedicarsi alla chitarra elettrica, e la batteria si insidia prepotente nei nuovi album.


I Depeche Mode sono un gruppo che vive di contrasti e dualismi, uno dei quali è del tutto interno a Martin Gore. E' lui che scrive tutti quei testi pieni di rese al peccato ("I give in to sin again and again") e slanci purificatori ("I'm a firm believer"), tra amore sacro (poco, in effetti) e passioni profane (in abbondanza). L'altro dualismo è al contrario esterno: quello tra il Gore paroliere e il Gahan cantante, ma anche tra la voce efebica del primo (si senta "Somebody") e quella "da uomo" del secondo: l'innocenza e l'esperienza sono compresenti nella loro musica, come in ogni animo umano.


Non tutto è però rose e fiori: Gahan ha infatti seri problemi di depressione e di droga, e l'atmosfera fra i quattro componenti del gruppo è abbastanza tesa. Tutto ciò confluisce in Violator (1990), che risulta comunque un disco splendido, carico di emozioni e di tanti hit che frutteranno il maggior successo di critica ai Depeche Mode. Si parla ovviamente di "Personal Jesus" e "Enjoy The Silence", ma anche "Policy Of Truth" e "World In My Eyes" danno nerbo a un disco considerato da molti la vetta assoluta della band.


Qui a dominare è la produzione di Flood, capace di traghettare definitivamente il gruppo fuori dalle stanze asfittiche dell'elettropop, approdando a un suono di ampio respiro, con larghi orizzonti da Cinemascope, dove strumenti suonati e elettronica, calore e gelo convivono in simbiosi. Esemplare è la lineare parabola di una "Enjoy The Silence" trascinata da un semplice riff di chitarra e da un accompagnamento di lievi percussioni, in un ambiente accogliente ed elegiaco, che è forse la migliore creazione dei Depeche Mode. Altrettanto memorabile è "Personal Jesus", che parte con un incalzante refrain di chitarra blues e si allarga alla fine a sonorità elettroniche, sempre però mantenendo il suo ritmo tribale e sulfureo: sarà reinterpretata perfino da Johnny Cash. Colpisce però, in mezzo a tanti inni maestosi e roboanti, l'intimo pulsare ambient di una "Waiting For The Night", dove Gore è mattatore.


Il momento d'oro della band inglese continua con un altro disco cult per i fan, Songs Of Faith And Devotion (1993), ed è chiaro, non appena esplode la violenza di "I Feel You", che si è ormai lontani anni luce dal gruppo di "Just Can't Get Enough". Il disco è tutto giocato su una dicotomia feroce: da una parte duri brani dove elettronica oscura e chitarre affilate concorrono a creare ambientazioni soffocanti e diaboliche ("In Your Room", "Rush"), dall'altra atti di contrizione dove si canta la voglia di redimersi attraverso la luce del gospel.


Quello che è cambiato, più ancora di un suono aggiornato alle più dure tendenze anni 90 (i My Bloody Valentine non sono passati inosservati) è l'atteggiamento della band, che ora sembra vivere sulla propria pelle i drammi e i pentimenti di cui parla, in un gioco dove la maschera truce del rock sembra trasformarsi in cruda realtà.


Il dubbio più inquietante è che la discesa di Gahan nel cliché del maledettismo rock sia dovuta a un sospetto che egli nutre su se stesso: quello di essere un falso. In fondo è una voce che canta le parole e le canzoni di un altro, un sanguigno cantante rock alla guida di una band elettronica, basata sulla riproduzione degli strumenti reali attraverso le macchine. Questo la direbbe lunga sulle dinamiche psicologiche che possono sorgere all'interno di un gruppo pop, ma anche sulla difficoltà di accettare l'elettronica come forma di espressione fisica, autentica, anche da parte dei suoi stessi facitori, di fronte a un rock che ha già ricevuto la sua giustificazione intellettuale negli anni Settanta.


L'idea che molti problemi della band siano nati da una problematica psicologica sarebbe confermata dal fatto che, dopo la debacle di Ultra, l'equilibrio raggiunto dai Depeche Mode nel nuovo millennio si è basato sulla maggiore confidenza di un Gahan dimostratosi in grado di firmare brani propri, sia per album a suo nome (il non a caso rockettaro Paper Monsters), sia per il gruppo (su Playing The Angel).


Quel che è certo è che col pathos autodistruttivo di Songs Of Faith And Devotion si conclude la fase creativa più interessante della storia della band.


Nel '93 le condizioni psicologiche di Gahan, che esce stressatissimo dal mastodontico "Devotional Tour", vanno letteralmente in frantumi con la caduta nel tunnel dell'eroina. Nell'estate del 1996 il frontman dei Mode tenta il suicidio tagliandosi le vene in un hotel di Los Angeles. Si salva per miracolo, ma i problemi sono evidenti anche nel resto del gruppo, di cui si teme, a ragione, lo scioglimento.


Dave Gahan - Depeche ModeTutto questo si riflette nell'abbandono di Alan Wilder, ma i Depeche Mode decidono di continuare la loro avventura anche in tre, e pubblicano Ultra nel 1997. Inaspettatamente, il disco non è anonimo come ci si potrebbe aspettare dopo il baratro in cui è caduta la band. Al contrario, i testi di Gore si sposano con un sound maturo, decisamente lontano dal pop scanzonato degli esordi, che esprime diverse contaminazioni musicali, fino alla dance. Ne è un esempio "Useless", che riesce a inserirsi con il suo riff aggressivo in tutte le discoteche del pianeta. Altri pezzi degni di menzione sono "Barrell Of A Gun", "It's No Good" (remixata anche da Paul Oakenfold) e la delicatissima "Home".


I problemi personali di Gahan sembrano essere scomparsi, e il gruppo ha l'occasione di tirare il fiato, pubblicando la seconda raccolta di singoli, dal 1986 al '98.


I Depeche Mode sono inossidabili, e tornano ancora sulla cresta dell'onda con Exciter (2001), album che ormai ha poco da aggiungere al tipico sound dei Mode, ma che raggiunge lo stesso un successo internazionale, trainato da "I Feel Loved" e "Dream On", ma soprattutto dalla dolce "Freelove".


Il tour dimostra che dopo vent'anni di carriera, i Mode sono ancora degli animali da palcoscenico, anche grazie al doppio Dvd "One Night in Paris", documentazione di una favolosa serata filmata dall'amico regista Anton Corbjin.


Tra il 2001 e il 2004 si sono rincorse molte voci sulla continuazione della loro carriera, che hanno trovato insistenza dopo la pubblicazione del primo album solista di Gahan, Paper Monsters, e il secondo disco solista di Gore, Counterfeit #2 (che segue il primo, con lo stesso titolo, del 1989).


Nel 2004 esce Remixes 81-04, raccolta di classici del gruppo di Basildon reinterpretati alla consolle da alcuni illustri nomi internazionali, tra cui Air, Underworld, Goldfrapp, Timo Maas, Portishead, Kruder & Dorfmeister. Il risultato non è del tutto soddisfacente, anche perchè la mole del materiale (cd triplo) favorisce la dispersione, ma qualcosa si salva. E' in ogni caso l'album che riporta i Depeche Mode all'attenzione delle folle, conquistando nuove schiere di giovani fan con una nuova versione più rock e aggressiva dell'immortale "Enjoy The Silence", con il contributo del dj dei Linkin Park, Mike Shinoda. Esclusi gli Air, da Remixes 81-04 traspare più che altro l'aria di un album superfluo per la carriera del trio, considerato oramai alla frutta, dopo aver dato tanto per quattro lustri.


La sorpresa invece è contenuta in Playing The Angel (2005), album ben riuscito e molto omogeneo dove i Depeche Mode riescono a tirare fuori ancora una volta una manciata di singoli ad alto potenziale, che conquistano come previsto i vertici delle classifiche. Nuovi stimoli e nuove idee concrete fanno sì che l'undicesimo album di studio della formazione di Basildon riveli ancora una volta quella capacità di coniugare successo commerciale e qualità artistica. Memorabili una delicata "Precious", che pare una nuova elegia alla "Enjoy The Silence", il blues elettronico di "John The Revelator", una "Pain That I'm Used To" dove un'elettronica minimale è devastata da scoppi di distorsioni cacofoniche. Su tutto domina un Gahan maturo e imperioso, in grado di dare senso anche ai brani meno riusciti.


A contribuire all'hype che si forma intorno al trio inglese sono un tour imponente e un videoclip, "Martyr" (singolo successivo all'album), che ripercorre la loro carriera venticinquennale.


Nel 2007 compare un secondo album solista di Gahan, Hourglass, che denuncia come insostituibile la voce del cantante, mentre la formula sonora degli assenti Gore e Wilder è clonata nei minimi particolari. Buoni i risultati della scrittura di brani come "Saw Something", "Kingdom", "Use You", tutte più o meno riferite al periodo aureo della band, mentre un brano come "Endless" non sfigurerebbe su un disco dei Depeche Mode anche sul piano delle sonorità.


Lo stile dei Depeche Mode, a più di vent'anni dal loro esordio, suona ancora pieno di vitalità, nonostante i tanti problemi incontrati da Gore & C. lungo il cammino. La band inglese è riuscita a mantenere costante la presenza di propri brani nelle chart, associando l'evoluzione musicale a un enorme successo a livello commerciale. La mescolanza di generi, insieme al mantenimento di un sound inconfondibile, è uno dei maggiori meriti degli inglesi, che si possono ragionevolmente considerare una delle band più importanti del periodo a cavallo tra anni Ottanta e Novanta.


I Depeche Mode hanno rischiato più volte di trasformarsi in relitti di un passato ricordato con poco piacere ma, mentre loro tenevano duro album dopo album, il mondo del pop si è progressivamente allineato alla loro visione, tanto che oggi, dopo il successo di dischi come quelli dei Daft Punk (i Tarantino del pop?) nessun critico si sognerebbe di aver pregiudizi verso il loro pop elettronico. Dopo i soldi è dunque arrivato quello che in realtà è sempre mancato loro: il consenso intellettuale.


Peccato però che su Sounds Of The Universe (2009) Gore e Gahan mutino prospettiva. L'idea di base del nuovo album è infatti omaggiare il futurismo anni 70/80: synth e attrezzatura vintage, suoni "spaziali", senso d'infinito. Lanciato dal singolo "Wrong" - un breve, ottuso e radiofonico inno nichilista - il disco insegue soprattutto il lavoro d'atmosfera. Il gusto retrò e robotico dei synth si sfoga in midtempo ariose, come "Fragile Tension", "In Sympathy" o "Come Back", in cui la melodia è mero mezzo per far distendere le strutture sonore. Mancano, però, i guizzi di genio, da artigiani del pop, che avevano reso i Depeche Mode fini interpreti di un'epoca. Resta una forma priva di vitalismo e in fin dei conti vacua. Sicché risulta inutile affastellare organo, beat, chitarre e tastiere nel canto d'iniziazione "In Chains", o navigare nel passato di astronauti come nel banale strumentale "Spacewalker".


A risultare migliori sono i brani più distanti: "Hole To Feed", col suo passo più spigoloso, o la ballata "Jezebel", un tetro romanticismo anni 60 frutto della penna di Gahan. Qualche palese b-side ("Little Soul"), un singolo non riuscito (l'eccesso di pathos "Peace") e poco altro concludono un album vittima di un'ambizione malriposta, fra i peggiori della discografia della band albionica.


Anticipato dal singolo “Heaven”, intensa ballata dalle venature rock, nel 2013 esce il nuovo album, Delta Machine. Non bastano, però, nemmeno le già sfruttate sonorità electro-blues della sensuale “Slow” e della conclusiva “Goodbye” per impedire all’ascoltatore di capire che i Depeche Mode sono ancora molto, troppo vicini stilisticamente a quelli più recenti. E qui interviene Dave Gahan, che descrive l’album come capitolo conclusivo di una trilogia realizzata assieme al produttore Ben Hillier, iniziata con l’acclamato Playing The Angel e proseguita con quel Sounds Of The Universe che aveva invece deluso un po’ tutti.


Anche stavolta il risultato, seppur migliore, è fin troppo cerebrale e poco dettato dall’istinto. All’arco di Gore sembrano mancare l’epicità dei vecchi inni da stadio (non bastano le orchestrazioni sontuose per dar nerbo a “Welcome To World”, incipit alquanto scarico invero), la giusta dose di pathos (soffocato in una “Alone” dalle potenzialità non appieno sfruttate e solo accennato nella timida “The Child Inside”, quasi una torch-song trasmessa dallo spazio) e melodie davvero compiute e liberatorie che compensino uno scenario così industriale e claustrofobico. Se la debacle dell’album precedente è comunque evitata, lo si deve soprattutto al tiro e all’aggressività di brani come l’invasata invettiva di “Angel”, l’urgente “Soft Touch/Raw Nerve” e il nuovo singolo “Soothe My Soul”, questo sì, cadenzato come “Personal Jesus” ma in veste più sintetica e che soffre dell’infelice posizionamento in scaletta verso la fine dell’album.


Lo smacco al biondo autore arriva curiosamente proprio dalla penna di Dave Gahan: come da recente tradizione, tre pezzi portano la sua firma e stavolta, seppur non eccelsi, rischiano di essere addirittura i migliori del lotto: la nervosa “Secret To The End” che presenta un bel gioco di cori, tra i più orecchiabili dell’album, “Broken” che, senza ricalcare pedissequamente un vecchio brano nello specifico, è paradossalmente la quintessenza sonora dei Depeche Mode, e una “Should Be Higher” che mostra finalmente un po’ di cuore sotto la coltre d’acciaio.


Proseguire la sua non troppo acclamata carriera solista all'ombra del gigante non è quindi più per Gahan un vezzo da star ma una necessaria affermazione d'identità, un boccata d'ossigeno, seppur cupa. Se nella prima collaborazione col duo Soulsavers, Gahan aveva prevalentemente ricoperto il ruolo di guest-vocalist di lusso e autore di testi, in Angels & Ghosts del 2015 il suo contributo sembra assumere un peso ancora maggiore, come si evince dai nomi riportati in copertina e soprattutto dall'ascolto dell'album.


L'inziale "Shine", elettronico spiritual dall'incedere estatico, riporta subito alla mente le tonalità di Songs Of Faith And Devotion che del periodo più buio di Gahan ne era stato, guarda caso, colonna sonora. Tuttavia anche stavolta i Soulsavers ci tengono a non voler apparire come dei Depeche di serie B, nonostante il cantante in condivisione, e orgogliosi delle loro radici più electro-folk, consolidate da anni di carriera e altre collaborazioni illustri, rivestono nuovamente la voce del frontman con sonorità più calde e tradizionalmente blues-rock.


L'intenzione ben si sposa col senso di religiosa redenzione che si respira brano dopo brano, e anche se questi non sempre riescono a trovare il giusto slancio, trattenuti dal mestiere (fin troppo vetuste "Tempted" e Don't Cry" e eccessivamente dolciastra la sviolinata di "One Thing"), con "You Owe Me" e il singolo "All Of This And Nothing", gareggiano a tratti coi gospel febbricitanti dei Bad Seeds più maturi e pastorali, quelli di "Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus". E delicate e accorate ballate come "Lately" e "The Last Time" sono solo meno cavernose ma non meno dolenti di alcuni recenti episodi cantautorali del bardo australiano. Quando i tre terminano il lavoro con uno spiraglio di fioca luce (non a caso intitolato "My Sun") l'impressione è quella di aver assistito ad un onesto confessionale in musica, che certo non brilla per inventiva e più volte pecca di incisività, ma possiede qualcosa di cui i più recenti album dei Depeche Mode erano in larga parte privi, nonostante le intenzioni: un'anima.


Iniziano a compensarsi, insomma, le due menti del gruppo, com’è giusto che sia dopo tutti questi anni, e ci si domanda perché mai Gore e Gahan non provino a scriverle insieme, le loro canzoni. Assieme alla scelta di un nuovo produttore, potrebbe essere quella la scintilla in grado di far ritrovare ai Depeche Mode una freschezza melodica che troppo spesso, ormai, sembrano voler metter da parte a favore di un’impalcatura sonora così perfetta e ingombrante da apparire inevitabilmente bella e senz’anima.


Il successivo Spirit prova a rispondere agli interrogativi chiamando in causa uno dei produttori più efficaci nel tastare il polso alla contemporaneità, James Ford, che però torna all'impostazione più consolidata, quella in cui Gore principalmente scrive e Gahan canta. I risultati sembrano dargli ragione, ma il focus dell'operazione risiede più che altro nel rinnovato bisogno dei Depeche di affrontare l'insofferenza nei riguardi della situazione politica e sociale, come non accadeva dai tempi di "People Are People".


Il disco, che già a partire dal primo singolo "Where's The Revolution" sembra cavalcare le onde tempestose post-Brexit e post-elezione di Trump, è in realtà stato concepito ben prima, e incarna la disillusione portando a termine l'avvicinamento a sonorità sempre più kraut. Nonostante le liriche spesso intrise di opprimente realismo, Gahan rimane decisivo nel recuperare l'aspetto emozionale in pezzi come "Going Backwards", "The Worst Crime" e in "Cover Me" (di cui è anche autore, insieme al tastierista Peter Gordeno e al batterista Christian Eigner) uno dei momenti più alti dell'intero lavoro, dove l'algido tappeto di synth trasforma la chiusura strumentale in un viaggio.


È palpabile la ritrovata capacità di dare risalto alla scrittura grazie probabilmente proprio a James Ford (portato a bordo dall'amico in comune Daniel Miller), bravo a disegnare una linea più coerente tre le varie tracce (asciugate da ogni orpello inutile) e a svincolare la band dalle pretese di chi ogni volta lamenta la mancanza di una nuova "Enjoy The Silence".


Disco sia di ripartenza che di continuità, Spirit resta a tutti gli effetti un episodio dall'inconfondible suono DM, che aiuta però a comprendere quanto la band sia ancora in grado di sintonizzarsi con lo spirito dell'epoca attuale.


 
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(fonte musiclegend.it)

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