È una torrida serata d'agosto del 1964. A Cavezze, sul palco del celebre "Dancing K559", si esibisce per la prima volta in pubblico un gruppo di ragazzi, notati quasi per caso a Milano, durante un'audizione, dal gestore del locale. La band risponde al nome di "Campioni", e alla chitarra si cimenta un ventunenne riccioluto, grande appassionato di Bob Dylan e del rhythm 'n' blues, che pare quasi assente per tutto il concerto, se non addirittura infastidito da tutto ciò che lo circonda. Nessuno dei presenti può saperlo, eppure quella sera il riccioluto introverso inizia la propria scalata verso il successo e l'immortalità; quella sera, apparentemente una sera come tante, il mondo conosce un ragazzo destinato a riscrivere la storia della musica italiana. Il giovane, al secolo Lucio Battisti, era nato il 5 marzo 1943 a Poggio Bustone, provincia di Rieti. Giorni felici, quelli, per la storia della canzone tricolore: basti pensare che meno di 24 ore di prima era venuto al mondo un altro celebre Lucio, destinato anch'esso ai fasti della musica, ovvero il bolognese Dalla.
Ma torniamo a Cavezze, all'agosto del 1964. L'esibizione dei Campioni è sorprendente per la competenza e le notevoli capacità tecniche che la giovanissima band dimostra. In particolare, gli spettatori sono sbalorditi dallo stile alla chitarra, decisamente originale, del ventunenne di Poggio Bustone: la svolta, per lui, è dietro l'angolo. Dopo il primo indimenticabile concerto, infatti, Battisti inizia a bazzicare con una certa regolarità gli ambienti musicalmente più in voga in quel di Milano, e compone i primi pezzi. Pochi mesi più tardi, il 14 febbraio 1965, viene notato durante una sessione di prove dalla giovane produttrice francese Christine Leroux, che subito si innamora del suo stile, del suo tono quasi "afono" e ai limiti del falsetto, eppure viscerale e capace di trasmettere un incredibile pathos, e chiede informazioni su di lui. Le risposte dei vari addetti ai lavori, che da tempo lo conoscono, sono sostanzialmente concordi: Lucio ha un grandissimo talento vocale e soprattutto compositivo, ma non sa scrivere i testi (tesi corroborata dai primissimi singoli dell'autore: basti ascoltare "Se rimani con me", canzone sicuramente curata e dal ritornello catchy, ma incredibilmente banale nei testi; da far invidia ai Beatles di "Love Me Do"). Per Christine, tuttavia, questo non rappresenta un problema: "Quando capii che non sapeva scrivere i testi, pensai subito a Mogol". Nacque così, grazie anche alla semplice illuminazione di una ragazza d'oltralpe, il connubio più famoso, discusso e al contempo celebrato della storia del pop italiano: nacquero così, quasi per caso, Battisti e Mogol.
Nell'autunno dello stesso anno, dopo aver firmato con la Ricordi il primo contratto della vita, Lucio Battisti incontra per la prima volta Giulio Rapetti, alias Mogol. L'amore non scocca subito: basti ricordare che, del primo incontro, Mogol avrebbe detto: "La prima volta che lo vidi, non rimasi favorevolmente impressionato. Lui mi disse che era d'accordo con me, e io trovai molto simpatica questa sua modestia e questa sua capacità autocritica. Allora gli dissi che qualche volta avremmo lavorato insieme, non per scrivere canzoni ma per fare degli esperimenti".Tuttavia, mai previsione si sarebbe rivelata meno azzeccata: di pezzi, Battisti e Mogol, ne scriveranno a iosa, innervando con nuova linfa vitale il mondo stantio e obsoleto della canzone leggera italiana.
Battisti e Mogol: gli esordi
Superate le iniziali incomprensioni, i due capiscono che possono collaborare proficuamente, e nel 1965 scrivono insieme il primo singolo: il pezzo è intitolato semplicemente "Ehi ragazzo", e verrà inciso per la prima volta dall'Equipe 84 nel 1968. Gli anni successivi, per Battisti, sono particolarmente intensi: fatica a trovare la strada giusta, prima tenta di entrare a far parte del clan di Celentano, e quindi abbandona definitivamente i Campioni. E poi, fra il 1967 ed il 1968, quando finalmente lui e Mogol capiscono di esser "destinati" a lavorare insieme e a costituire una coppia stabile, ecco venir alla luce i primi autentici successi dell'infinito repertorio del duo; successi che, in buona parte, vengono inizialmente interpretati da altri artisti. Siamo in piena epoca psichedelica, e questo incide non poco sulle composizioni del nostro. Lucio dimostra infatti, sin dagli esordi, un forte interesse per tutte le novità che arrivano da oltremanica e oltreoceano: basti pensare a "Quando gli occhi sono buoni", ballata in puro stile country costruita su misura per l'esordio della cantante romana Giuliana Valci. Basti ascoltare "Guardo te e vedo mio figlio", B-side del singolo "Senza luce" dei Dik Dik, che ricorda invece certe cose blues degli Yardbirds; basti infine dare un ascolto a "Era", originale ballata acustica che sfrutta le tecniche sperimentate dai Beatles con "Revolver" (i nastri ascoltati al contrario).
Il duo è sempre più prolifico, e l'"epopea Battisti" si avvicina con prepotenza: nel marzo del 1967 Lucio cala l'asso "29 Settembre", che, inciso dall'Equipe 84, stritola le classifiche. Alla fine dello stesso anno viene finalmente pubblicato il primo 45 giri interamente firmato e inciso dai due, con l'interpretazione di Battisti, e i due brani sono: "Nel cuore e nell'anima" (interessante composizione dal testo decisamente inusuale, che verrà inserita nel disco di debutto) e "Ladro". Seguirà una serie di singoli destinati a un enorme successo.
Tu chiamale, se vuoi, emozioni
Lucio BattistiA fine decennio i tempi sono decisamente maturi perché la Ricordi, etichetta dell'artista reatino sin dal 1966, pubblichi il suo primo Lp, intitolato semplicemente Lucio Battisti, che giunge sugli scaffali dei negozi italiani nel marzo del 1969. L'album contiene in realtà materiale già noto, ovvero i maggiori successi della coppia, oltre che tutta una serie di brani scritti sempre dal duo, ma portati al successo da altri. Il disco, nel bene e nel male, segna l'inizio di una nuova era per la canzone italiana, tanto dal punto di vista strettamente artistico quanto dal punto di vista commerciale (permane per ben nove settimane nella classifica dei 33 giri, dopo aver raggiunto la seconda posizione). L'intro è affidata al pezzo sanremese "Un'Avventura", destinato a divenire una fra le canzoni più celebri dell'autore: si tratta di una composizione, nella sua apparente semplicità, già indicativa del percorso musicale che il giovane Battisti ha tutta l'intenzione di intraprendere. Infatti, se da un lato la linea vocale, grazie alla morbida scrittura e al ritornello accattivante, sembra in sintonia col trend festivaliero, a spazzar via il sospetto di trovarsi davanti all'ennesimo pezzo (e artista) banale provvedono fortunatamente l'arrangiamento, venato di beat, e una sessione di fiati che si rifà direttamente alla tradizione rhythm 'n' blues americana.
Insomma, Battisti mette subito le cose in chiaro: questa non è la solita musica. Lui e Mogol non vogliono rimanere ancorati a determinati schemi nazional-popolari preconfezionati (cui tuttavia vengono sovente, e superficialmente, ricondotti), ma preferiscono tentare nuove vie, sperimentare soluzioni originali e accattivanti, varcare gli angusti argini della tradizione melodica del Bel Paese pur senza rinnegarla in toto. La classica "forma canzone" viene così condotta per mano verso più alti lidi, e impreziosita con sonorità provenienti da universi musicali distanti e all'apparenza incompatibili con quello tricolore: il blues, il soul, la musica beat inglese (e in seguito il folk, il progressive, le sonorità latino-americane, la new wave elettronica).
In fin dei conti, forse, la grandezza di Battisti sta proprio qui: nella sua innata capacità di plasmare a piacimento la melodia, contaminandola con un'infinità di sonorità e spunti di varia provenienza. A sorprendere sono anche la ricercatezza e l'autentica poeticità delle liriche, che risultano perfettamente "incastonate" nel corpus musicale.
Il pezzo successivo, "29 Settembre", già inciso dall'Equipe 84 e destinato anch'esso a fama immortale, è forse il primo capolavoro di Battisti; e cela, dietro l'accattivante linea melodica, velleità sperimentali e forme decisamente originali: l'intro è affidata a una fitta trama di corde di chitarra (a terzine), cui presto si aggiungono basso, archi e fiati (niente batteria). La struttura è circolare e ipnotica, priva di un vero ritornello eppure straordinariamente ricca nella spezzettata linea melodica (cui l'interpretazione di Battisti conferisce una peculiare dimensione quasi cinematografica): la psichedelia è dietro l'angolo, nonostante il tutto suoni estremamente orecchiabile. Da notare, anche in questo caso, la potenza delle immagini evocate dalle liriche di Mogol e dall'interpretazione di Lucio. "La mia canzone per Maria" svela un altro lato dell'anima del compositore, grazie alle sue ritmiche e strutture proprie della musica spagnola e latino americana, e vanta un'altra melodia efficacissima. Non mancano, nell'ambito del disco, altre composizioni memorabili e ancora oggi famosissime: in primis, "Uno in più", pezzo beat che si riallaccia alla protesta ecologista dei folksinger americani, per proseguire con "Non è Francesca", brillante e geniale esempio di scrittura pop "da camera", che ricorda in qualche misura i Beatles di "Yesterday" o di "Eleanor Rigby", e si conclude con una lunga sezione strumentale ispirata ancora al modello dei Fab Four (registrazioni suonate al contrario).
Notevoli sono altresì "Balla Linda", che sorprende per l'originale struttura ritmica e per l'estrema cantabilità, e "Io vivrò senza te", che colpisce invece per i ricercati arrangiamenti, per i complessi fraseggi orchestrali e per l'impressionante livello di pathos comunicato dall'interpretazione canora. "Nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto", incisa originariamente dai Ribelli di Demetrio Stratos, viene riproposta in modo originale e suona quasi come un pezzo nuovo, anche per le enormi differenze riscontrabili fra la voce di Stratos e quella di Battisti.
Detto della musica, è importante sottolineare come il primo disco metta in chiaro le intenzioni del duo anche dal punto di vista strettamente lirico: Battisti e Mogol si dedicano unicamente al privato, tralasciando qualsivoglia tematica socio-politica e/o "impegnata"; raccontano le paure dell'everyman, sviscerano le sue debolezze e la sua fragilità, l'ansia del quotidiano, le piccole cose che possono trasformarti la vita o semplicemente una giornata, i fallimenti amorosi, le delusioni, le gioie più grandi.
Tutto questo contribuirà ad alimentare la tesi di un Battisti cantore della destra, opposto allo stuolo di nascenti songwriter italiani schierati a sinistra. Una tesi che ha resistito per anni, alimentata anche dai silenzi dell'interessato, sempre molto restio a rilasciare interviste.
Senza ovviamente aver la pretesa di conoscere le opinioni politiche di Battisti, chi scrive ritiene in ogni caso opportuno evidenziare come l'eventuale esistenza di tali orientamenti non abbia in alcun modo influito sulla sua musica e come, anzi, Battisti si sia schierato apertamente solo in materia "ecologista". A ciò si aggiunga che lo stesso Mogol avrà in più circostanze l'occasione di ribadire come l'etichetta "fascista" fosse stata loro attribuita al fine esclusivo di renderli "antipatici" a una fetta importante del pubblico.
Tornando alla carriera musicale di Battisti, siamo ormai giunti al dicembre del 1970: i tempi sono maturi perché la Ricordi pubblichi il suo secondo Lp, Emozioni. Anche qui siamo di fronte, più che a un album compiuto, a una raccolta di tutti quei singoli che, spesso editi già nel 1969 (alcuni addirittura già presenti nella precedente raccolta), hanno consacrato Battisti quale artista di culto della musica italiana, con l'aggiunta di alcuni sorprendenti b-side. E anche qui i classici si sprecano. Basti pensare ad "Acqua azzurra/Acqua chiara", pezzo divertente che alterna la delicatezza melodica della strofa all'irresistibile, energico refrain del ritornello. La composizione è ancora incredibilmente spontanea e al contempo ricercata nell'articolato arrangiamento, che conferisce al tutto un pathos rhythm'n'blues (con le trombe che "chiamano" e il resto dell'organico che "risponde"; e con tanto di ritmiche intricate studiate nei minimi dettagli per ciascuno strumento).Battisti si conferma ancora una volta in grado di mettere d'accordo la critica più esigente e il pubblico: è fra i pochi artisti, specie in Italia, capaci di combinare un'estrema facilità dell'ascolto con una insospettabile ricercatezza e complessità delle strutture compositive. "Mi ritorni in mente" è un altro gioiello: fonde con originalità e perizia atmosfere tradizionali da romanza e sonorità "nere", ed è impreziosita da un testo a suo modo geniale nell'evidenziare il contrasto fra il dolce ricordo dell'amata e la sofferenza per la perdita e il tradimento. E l'ascoltatore, quasi inevitabilmente, ritrova nell'interpretazione fantastica di Battisti tutto lo smarrimento e l'incredulità del protagonista innanzi alla sua lei che si innamora di un altro. "7 e 40" è un altro pezzo famosissimo ed emblematico della fusione impeccabile delle trovate musicali di Battisti con gli immediati testi di Mogol. La bellissima "Fiori rosa, fiori di pesco", arricchita da impetuosi crescendo ritmici e da una melodia immortale (impossibile non sentire come proprie le speranze del protagonista, quando si sente "Posso stringerti le mani/ Come sono fredde tu tremi/ No, non sto sbagliando mi ami/ Dimmi che è vero! Dimmi che è vero!"), e il blues rovente de "Il tempo di morire", vanno di diritto annoverate fra le composizioni più riuscite del primo Battisti.
Le tematiche sono sempre di natura prettamente amorosa, ma a fare la differenza sono l'impostazione "negativa" (il tema della dolorosa, struggente perdita dell'amore e della solitudine che ne consegue è forse il più caro al duo) e l'incredibile intensità dell'interpretazione di Battisti, in grado di rendere al meglio sentimenti quali il rammarico e la disperazione.
"Emozioni" rappresenta, nel bene e nel male, il pezzo simbolo di un'epoca e probabilmente uno dei vertici qualitativi, interpretativi e compositivi di tutta la musica pop italiana. Dirà Battisti, in una delle rarissime concessioni al giornalismo: "'Emozioni' l'ho scritta subito dopo il viaggio a cavallo Milano-Roma e vi ho messo quella tensione intima, quei passaggi bruschi sospesi in aria, per esprimere meglio il senso di scoperta, di stupore che provammo io e Mogol avventurandoci per prati, colline e fiumi, come se vedessimo la natura per la prima volta". Musicalmente, il pezzo consta di una melanconica linea melodica, dalla struttura circolare, che culmina nel celeberrimo verso "Tu chiamale, se vuoi, emozioni", ed è arricchita dall'accompagnamento enfatico di un'orchestra di 60 elementi. Il tema, ancora una volta, è rappresentato dal dolore per un amore non corrisposto; e dal senso di vuoto, perdita e solitudine che spesso ingenera reazioni scomposte ("guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere/ se poi, è tanto difficile morire"; "prendere a pugni un uomo solo perché è stato un po' scortese, sapendo, che quel che brucia non son le offese"). Chiudono il disco altri classici quali "Dieci ragazze", "Dolce di giorno" e "Anna".
Dopo Emozioni e il suo enorme successo, Battisti decide di pubblicare il primo album vero e proprio della sua carriera, lasciando presagire di volersi in qualche modo liberare dell'immagine di cantore degli amori della giovane Italia, che suo malgrado (considerando che già le prime composizioni tendono, come illustrato, a oltrepassare con decisione i limiti della tradizione melodica tricolore) gli è stata appiccicata addosso, per addentrarsi in universi musicali più complessi e di meno facile presa. Lucio si è infatuato delle nuove istanze del rock e del folk progressivo italiano (tant'è che il disco verrà realizzato con la collaborazione dei membri della Pfm), oltre che, insospettabilmente, del rock "duro" britannico e americano; e si è progressivamente avvicinato anche alla tradizione colta europea e alla musica d'avanguardia; tutti fattori che contribuiranno a fare di Amore e non amore (luglio 1971, Ricordi) uno fra i traguardi più ambiziosi della sua carriera.
Amore e non amore è un album che (seppur pubblicato un anno dopo la realizzazione per pure ragioni commerciali: Emozioni era decisamente più adatto al periodo natalizio), amalgamando nella sua struttura atipica pop, folk, progressive e musica colta, conferma come il suo corpus musicale vanti pochissimi competitori in Italia. Il disco consta di quattro pezzi strumentali e di quattro canzoni, sempre impregnate della solita tematica amorosa (o meglio, nel caso in questione si dovrebbe parlare di tematica "non-amorosa"), ma questa volta contraddistinte da estrose figure femminili: "Una" racconta di una donna che non è bella e nemmeno intelligente, ma di cui il protagonista non può che innamorarsi; mentre "Se la mia pelle vuoi", irresistibile pezzo quasi hard-rock, sembra alludere a una compagna sessualmente insaziabile. "Dio mio no", pezzo introduttivo, sviscera invece i timori del protagonista nei rapporti con l'amata, ed è incredibilmente costruito, per tutti i suoi sette minuti e oltre di durata, solo sull'accordo di Mi settima. "Supermarket", infine, è un pezzo per chitarra acustica dal sound volutamente provvisorio quando non approssimativo, ma è impreziosito dal solito ritornello catchy. Passando agli incredibili strumentali, non si può che rimanere sbalorditi tanto dai lunghissimi titoli quanto dalle originali trovate compositive, perfettamente rese da un'orchestra diretta dallo stesso Battisti. "Seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi" presenta un originale tema dal sapore mediorientale. "7 agosto di pomeriggio, fra le lamiere roventi di un cimitero di automobili solo io silenzioso eppure straordinariamente vivo" , dopo una intro per chitarra, conduce direttamente verso l'atonalità. "Davanti ad un distributore automatico di fiori dell'aereoporto di Bruxelles anche io chiuso in una bolla di vetro" si rifà addirittura a certe sonorità barocche, e "Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore, 35 morti ai confini di Israele e Giordania" chiude degnamente il disco, con un sorprendente crescendo orchestrale con tanto di parte canora, priva però di un autentico testo.
Nonostante il successo commerciale arrida, seppur in misura meno evidente rispetto al passato, anche ad Amore e non amore, la Ricordi sul finire del 1971 dà alle stampe Vol. 4, altra operazione di carattere meramente compilativo, seppur se non priva di motivi d'interesse (vi si trova, ad esempio, "Luisa Rossi", fra i primissimi singoli scritti dal cantautore reatino), al solo scopo di conquistare le classifiche.
Nel 1972, dopo la pubblicazione dello straordinario singolo "Pensieri e Parole", destinato anch'esso all'immortalità artistica e commerciale, esce Umanamente uomo: il sogno, primo disco prodotto sotto l'egida della neonata etichetta Numero Uno, fondata dallo stesso Battisti allo scopo di dare adeguato spazio ai propri progetti musicali. Il lavoro presenta diversi spunti interessanti e si staglia con originalità nella discografia di Lucio. Già il pezzo introduttivo, "I Giardini di Marzo", semplicemente meraviglioso, è destinato a segnare la memoria collettiva italiana per decenni. La canzone possiede infatti un fascino straordinario, e racconta in puro stile mogoliano, ma con toni particolarmente cupi, dell'incapacità di comunicare, della solitudine, dell'affranta ricerca di un qualcosa che riempia la nostra quotidianità. Straordinari paiono tanto alcuni passaggi ritmici e melodici, quanto le liriche di Mogol, ora pregne di un rassegnato pessimismo ("L'universo trova spazio, dentro me/ Ma il coraggio di vivere quello ancora non c'è"), ora capaci di evocare con straordinaria forza immagini dal sapore metafisico ("Io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti/ Il più bello era nero con i fiori non ancora appassiti"). Al solito, straziante l'interpretazione offerta da Lucio, specie nel memorabile ritornello. Completamente diversa è la successiva "Innocenti evasioni", decisamente più leggera e godibile; mentre "E penso a te" ritorna su sonorità più cupe, narrando tutta la rassegnazione e l'imbarazzo di un amore oramai sfiorito. "Umanamente uomo: il sogno" è uno strumentale sulla falsariga di quelli pubblicati con Amore e non amore, e la successiva "Comunque bella" è una pregevole composizione pop per chitarra acustica, con tono in crescendo. Il disco, fra i più riusciti della prima fase della carriera di Battisti, si chiude sulle note spensierate de "Il leone e la gallina", e con la bellissima "Sognando e risognando", pezzo dalla tematica piuttosto banale ma di grande impatto e originalità musicali, che vede alternarsi al canto Lucio e una giovane cantante, e con lo strumentale "Il fuoco".
Lavori come Umanamente uomo, al di là dell'estrema cantabilità di quasi tutti i pezzi, mostrano in realtà un Battisti già desideroso di sfidare il pubblico e quindi se stesso, e sembrano indicare la via che condurrà ai complessi lavori dell'ultima parte della carriera. Il 1972 si chiude con la pubblicazione de Il mio canto libero, mixato a Londra e destinato anch'esso a un incredibile successo commerciale, grazie anche e soprattutto alla forza trainante della title track, pubblicata qualche mese prima come singolo.
Il mio canto libero estende gli orizzonti della canzone battistiana tanto dal punto di vista musicale quanto dal punto di vista lirico e tematico, e si rivela uno dei lavori-cardine della sua carriera, il disco in cui la coppia Battisti-Mogol raggiunge una simbiosi perfetta e un'unità di intenti totale. L'amore è ancora il tema portante, ma viene indagato sotto differenti prospettive: centrale diviene il tema della libertà dell'individuo, e si insiste sui risvolti psicologici più complessi del rapporto uomo-donna. Dal punto di vista musicale, Battisti si conferma autore di grandissimo talento e soprattutto grande stratega della melodia: "Suono per ore finché mi accorgo di aver messo insieme una melodia e attorno a questa trama lavoro finché non mi accorgo di aver trovato il motivo giusto". L'introduzione di archi, diretti da Giampiero Reverberi, apre il lavoro con "La luce dell'Est", brano fra i più riusciti di tutto il suo repertorio, lirico, sognante e articolato in due parti distinte, con tanto di differenti tonalità. Ma non mancano altri pezzi di grande qualità: "Luci ah" (la cui parte pianistica, considerata da Lucio troppo "effettata", fu causa di un litigio con il collaboratore Tempera), "L'aquila" (già interpretata da Bruno Lauzi), che svela ancora una volta l'anima hippie-ecologista della coppia, "Vento nel vento" (forte di un testo stupendo e di un'interpretazione al solito eccezionale per intensità e pathos), nonché, soprattutto, la title track. "Il mio canto libero" è un pezzo dall'anima soul, costruito su di una melodia in crescendo particolarmente riuscita ed emozionante: rimarrà uno dei suoi capolavori, uno di quei pezzi che hanno veramente innalzato la canzone melodica italiana al rango di arte superiore.
La prolificità di Battisti all'inizio degli anni 70 ha del prodigioso: meno di un anno dopo la pubblicazione de Il mio canto libero, ecco che arriva nei negozi Il nostro caro angelo, pubblicato in contemporanea con l'omonimo singolo. Per la realizzazione del lavoro, Battisti si traveste da polistrumentista e rinuncia in un sol colpo ai tanti artisti che avevano collaborato con lui alle precedenti realizzazioni. Il venir meno di collaborazioni di un certo calibro, tuttavia, incide e non poco sulla qualità dell'album, che rimane certamente dignitosa, ma è lontana dalle vette cui Lucio aveva abituato il suo pubblico. La vera novità è costituita forse dall'espandersi delle tematiche affrontate nei singoli pezzi: all'onnipresente tema amoroso e a quello ecologista si aggiungono una critica graffiante e persino "dura" al consumismo, al perbenismo e all'indifferenza della società; si tratta insomma di un lavoro che, seppur riuscito solo a metà, si colloca perfettamente nello spirito del suo tempo (quello da nostalgia post-sessantottina). "Ma è un canto brasileiro" è forse il vertice del disco: una netta presa di posizione contro il consumismo sfrenato e contro i messaggi occulti della pubblicità, e, dal punto di vista musicale, un rock che si permette il lusso di sfociare in dolci atmosfere latino-americane, preludendo in qualche modo all'imminente capolavoro Anima Latina.
"La collina dei ciliegi" tenta di rinverdire i fasti di alcune grandi composizioni del recente passato (su tutte, "Il mio canto libero"), ma, pur nella sua originalità (il pezzo è arrangiato con tastiere elettroniche), non ne raggiunge i picchi di genio melodico né tantomeno l'intensità emotiva. Altro pezzo decisamente inusuale nell'ambito della discografia di Battisti e Mogol è "Le allettanti promesse", costruita sul dialogo fra la voce di Lucio e alcune voci femminili, in un gioco di call-and-response di chiara impronta blues, con un testo che fa a fette l'ottusità di certa provincia italiana. Oltre a "Prendi fra le mani la testa" e "Questo inferno rosa" (l'ultima sembra quasi contenere in nuce alcune soluzioni stilistiche del periodo Panella), l'album sfoggia un pezzo di grande qualità quale "Il nostro caro angelo"; canzone in grado, nella sua dolcezza, di svelare il senso di inquietudine del quotidiano, e il desiderio di libertà, di emergere nella propria individualità. Nonostante forse per la prima volta le reazioni della critica non siano entusiastiche, il disco ottiene al solito un enorme successo commerciale, e, tutto sommato, con la sua sobrietà riesce a mantenersi su livelli più che dignitosi.
Il viaggio in Brasile e la svolta di "Anima Latina"
Lucio BattistiAlla fine del 1974 Lucio Battisti è ormai un monumento della canzone italiana. Ha scalato le classifiche sempre e comunque, ha inciso diversi dischi di grande interesse e alcune canzoni-capolavoro, il suo sodalizio con Mogol è solidissimo e garantisce una proficuità inimmaginabile. Ma il successo, i soldi, il dominio delle hit-parade, dopo quasi un decennio, a Battisti sembrano non bastare più. Avverte il bisogno di espandere ulteriormente i confini della propria arte, di entrare in contatto con altri universi musicali (come già abbozzato negli ultimi lavori). E così, nel 1974, intraprende un viaggio in Sud America; e, dimostrando ancora una volta il suo talento di eclettico rielaboratore di stili disparati, al ritorno in Italia riversa tutte le nuove conoscenze nel disco destinato a restare, con ogni probabilità, il suo massimo capolavoro; nonché, a parere di chi scrive, uno dei risultati più alti cui sia pervenuta la musica pop italiana.
Il disco in questione è, ovviamente, Anima Latina. Un lavoro che per la prima volta rifugge in toto i ritornelli e le invenzioni melodiche immediatamente memorizzabili, per spingersi oltre, in mondi nuovi. Comprenderlo a fondo richiede tempo e impegno: è difficile, per chi ha amato e conosciuto il primo Battisti cogliere al primo impatto le sfumature più ardite, i mille colori cui l'artista reatino si affida, le complesse scansioni armoniche e le stupende trovate ritmiche. Anima Latina miscela pop, progressive e psichedelia con ritmi e sfumature propri della musica latino-americana, con risultati strabilianti.
"Abbracciala abbracciali abbracciati" è introdotta da una lunga sezione strumentale, ove sul ritmo ipnotico e al ralenti della batteria fanno il proprio ingresso una sezione di fiati (flauto traverso e sax tenore in primo piano) e la chitarra elettrica. Le liriche affrontano ancora il tema dell'amore, ma divengono improvvisamente più ermetiche e cerebrali ("Cosa ti dicevo mai/ A che punto ero/ Ho quasi l'impressione che/ Io con te perdo il sentiero/ forse la psicologia/ può spiegare questi strani vuoti della mente mia"). E la voce di Lucio è distante, sovrastata dall'espressivo e complesso impasto strumentale, che non può non richiamare il coevo progressive italiano (anche per la durata del pezzo: oltre 7 minuti). "Due mondi" nasce sulle note della canzone che precede, ma, alla ricca sezione di fiati, che lentamente avvolge l'ascoltatore in una irresistibile marea di suoni, si aggiunge un incedere decisamente più sincopato; e le strofe vengono cantate in maniera alternata da Lucio e Maria Cabeddu.
"Anonima la casa, anonima la gente, anonimo ...anch'io": questi sono i versi che introducono la splendida "Anonimo", composizione inizialmente più rilassata e costruita attorno a una delicata melodia accarezzata da flauto e tastiera; nella sezione centrale, tuttavia, subentrano incessanti ritmiche di chiara ascendenza latina che conducono verso il liberatorio finale. Brano impressionante, dunque, lontano anni luce dal mondo della canzonetta cui purtroppo Battisti viene sovente ricondotto. "Gli uomini celesti" è una chiara presa di posizione contro le facili illusioni, che alimenterà le voci sulle sue passioni politiche conservatrici, ("Ti faranno fumare/ Per farti sognare"), e al contempo è un brano musicalmente eccezionale, in cui una chitarra acustica muove le danze prima che subentrino una corposa sezione ritmica latino-americana e possenti tastiere, in un tripudio di sonorità e atmosfere, come da titolo, celestiali.
Dopo le due brevi reprise, il disco prosegue sulle note della title track, con ogni probabilità il capolavoro nel capolavoro: le sonorità sono al solito ricercate e complesse, la lunga intro strumentale (quasi due minuti) è costruita su forti contrasti e improvvise impennate (chiaro/scuro, morte/vita), mentre il testo dipinge magistralmente immagini di un mondo lontano ("Corre sulle spiagge atlantiche, seguendo i calci di un pallone/ per poi finire nel grembo di grosse mamme antiche dalla pelle marrone"). Idealmente, si passa dalle pampas argentine alle spiagge di Rio, in un abbraccio che comprende tutta l'America Latina.
Dopo il semi-divertissment de "Il salame", ecco "La nuova America", costruita su un ritmo incalzante e sincopato e arricchita inizialmente da sonorità jazzistiche, per poi tornare al tema introduttivo, riproposto in salsa più vicina alla tradizione melodica italiana. "Macchina del tempo" richiama decisamente le sonorità del progressive più evoluto (anche qui siamo oltre i 7 minuti di durata), con i suoi tenui arpeggi di chitarra, le percussioni free, il basso corposo, e un finale degno di una sinfonia classica. Il commiato di "Separazione naturale" ha un sapore leggero e onirico.
Anima Latina resterà, oltre che un unicum nella discografia battistiana, un memorabile esempio di rottura con il passato, di abbandono della facile (per quanto spesso memorabile e ricercata) cantabilità per approdare verso altri lidi, rovesciando tutte le aspettative di chi aspettava solo l'ennesima grande hit.
Nel 1975 Battisti intraprende un nuovo viaggio, questa volta negli Usa, e il contatto con nuove esperienze musicali (dichiarata fu la sua passione per le ritmiche funky e soul) lascerà un segno evidente in Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera, pubblicato sempre dalla Numero Uno nel febbraio del 1976.
Le prime note rivelano subito l'intenzione di abbandonare le velleità sperimentali e progressive per ritornare verso una più rassicurante forma canzone: "Ancora tu", con il ritmo fresco e accattivante e la solida, impeccabile linea melodica, è tanto orecchiabile che addirittura viene proposto nelle discoteche nostrane, e staziona stabilmente al primo posto delle classifiche. "Ancora tu" conferma inoltre che, come da titolo, la sezione ritmica è la vera protagonista del lavoro: merito di collaboratori del calibro di Hugh Bullen (bassista), Walter Calloni (batterista), Ivan Graziani. Il lavoro, tuttavia, pur presentando diversi spunti interessanti, suona come un deciso passo indietro rispetto ad Anima Latina, e sembra voler segnare un adeguamento alle mode imperanti (pop, easy-listening, funky, disco-music). Al di là del divertente e riuscito singolo d'apertura e di pochissime altre eccezioni ("Il veliero", caratterizzato da martellante incedere ritmico; "Respirando", in cui si tratta con delicatezza il tema del suicidio per amore), il disco infatti consta di pezzi non sempre riusciti, questa volta impoveriti dalle liriche ripetitive e un po' scontate di Mogol. Impressionante rimane, in ogni caso, il lavoro della sezione ritmica, in grado di preludere secondo certa critica addirittura a certe sonorità drum 'n' bass.
La prolificità di Battisti non conosce tregua: nel marzo del 1977, contestualmente all'Ep "Amarsi un po'/ Sì viaggiare", esce l'album Io tu noi tutti. Un lavoro in cui lo stesso autore riconosce di aver ritrovato una certa semplicità espressiva, tanto nella musica quanto nelle liriche. Il disco viene registrato a Los Angeles, e risente, oltre che delle ultime sonorità in voga negli States (tant'è che originariamente si trattava di un prodotto destinato in via esclusiva al mercato americano), delle esperienze accumulate in nei tre long playing precedenti. Nonostante la gestazione complessa e piuttosto lunga, il disco presenta una fluidità notevole, e riscopre la centralità della melodia, avvicinandosi ulteriormente all'universo funky e disco già lambito nel lavoro precedente. Si tratta altresì di un nuovo punto di svolta nella carriera di Battisti, che da quel momento in poi si avvarrà unicamente della collaborazione di musicisti stranieri, quasi a voler confermare la ferrea intenzione di abbandonare progressivamente il mondo della canzone italiana. I brani di maggior impatto risultano però i due pubblicati su Ep: "Amarsi un po'" è costruita attorno a una sequenza di due soli accordi, e dopo l'introduzione all'insegna di tastiere e sintetizzatori, si regge su strumenti più tradizionali ad accompagnare una linea melodica spezzettata ma al solito piacevolissima. "Sì viaggiare" è destinato a rimanere nella memoria collettiva come uno dei suoi brani più rappresentativi, forte di una robusta sezione ritmica in pieno stile disco-music e di un riuscito testo metaforico. Interessanti risultano, in ogni caso, anche il funky de "L'interprete di un film" e "Ho un anno in più", in cui l'accompagnamento all'insegna dei sintetizzatori prelude alla svolta definitiva degli anni a seguire.
Sempre nel 1977 Lucio pubblicherà, incidendo e remixando in lingua inglese alcuni fra i suoi maggiori successi italiani, e ad esclusivo uso e consumo del mercato americano, Images.
Siamo giunti a fine decennio, e l'inossidabile rapporto con Mogol inizia inevitabilmente a scricchiolare. Anche perché Lucio sembra sempre più convinto di intraprendere nuove strade e ricercare nuove soluzioni creative. Il suo amore per la musica anglo-americana, già evidente nei primi anni di carriera, a fine 70's cresce a dismisura. Tant'è che il celebre Lp Una donna per amico (1978, Numero Uno) viene inciso nel castello di Manor, piena campagna inglese. E se le liriche, che rimangono tutte a firma Mogol, sono ancora vicine alla produzione di inizio decennio, le composizioni si avvicinano sempre più agli universi funky e al pop elettronico allora nascente, risultando perfettamente in linea con le nuove tendenze wave anglo-americane. "Prendila così" è un fulminante esempio di questo nuovo corso, che rielabora le intuizioni dei lavori precedenti innervandole con l'elettronica e un'immediatezza quasi punk; e questo, nonostante il pezzo sia notevolmente lungo per i suoi standard (siamo sulla soglia degli 8 minuti): mentre il basso sorregge tutta l'impalcatura sonora, eleganti tastiere dal sapore quasi new wave accompagnano una melodia affascinante. Sorprende poi il finale, arricchito da assolo di sax in dissolvenza nel tripudio delle tastiere. Sulla medesima falsariga, con tanto di ritmo fortemente sincopato e melodie ariose, si muovono altre tracce, quali "Avere paura di innamorarsi troppo" (che occhieggia addirittura, in certi passaggi, ai Beach Boys), "Donna selvaggia donna" e "Nessun dolore".
Il pezzo più riuscito e celebre del disco risulterà in ogni caso, accanto all'introduttiva "Prendila così", la title track. Il pezzo è immediato, accattivante nella linea melodica, eppure ricco di innumerevoli ricami e sfumature delle tastiere costruiti attorno alla solida e irresistibile linea di basso. Un pezzo perfettamente riuscito, che può annoverarsi fra i classici battistiani. "Ma il mio mestiere è vivere la vita" è poi un verso che sembra voler riassumere un po' tutta la filosofia alla quale è improntato il disco.
All'inizio del nuovo decennio, e precisamente ad inizio 1980, viene pubblicato l'ultimo album della coppia Battisti-Mogol, ormai definitivamente sulla strada del divorzio. Il titolo, malinconico, ben si addice al triste finale della ultra-decennale avventura: Una giornata uggiosa, sin dalla grigia copertina, è il disco più oscuro e introverso, sino a quel momento, dell'intera discografia di Battisti. Così come accaduto con i lavori precedenti, anche Una giornata uggiosa viene registrato all'estero (e, più precisamente, alla Town House di Londra), con tanto di autorevoli collaboratori di origine britannica. Il lavoro, spesso sottovalutato anche dai fan, mostra invece più di uno spunto d'interesse e segna in ogni caso un punto di svolta fondamentale, poiché, dopo i timidi tentativi dei lavori precedenti, le tastiere elettroniche diventano le vere protagoniste della musica di Battisti, preludendo in maniera decisa alla svolta di E già. L'atmosfera, come anticipato, è fortemente malinconica e grigia, ma nasconde anche un insaziabile desiderio di fuga e di libertà (dal rapporto con Mogol?); e se le liriche paiono in diversi casi molto più deboli che in passato, Lucio sopperisce ampiamente grazie a un'inventiva musicale che non mostra cedimenti: anzi, è possibile affermare che in questo disco, per la prima volta, la ricerca musicale è disgiunta dalla logica delle liriche, intraprende direzioni proprie e inusuali. Tutto pare volto all'esaltazione della nota musicale in sé, alla melodia dallo sviluppo "libero" e non riconducibile unicamente alla logica della strofa-ritornello: siamo ai primordi della svolta definitiva dell'epoca Panella. Fra i pezzi più riusciti, da segnalare "Arrivederci a questa sera", che unisce alle sonorità elettroniche il sax di Mel Collins dei King Crimson, "Gelosa cara" (arricchita da mille impeccabili colori elettronici), e la celeberrima "Con un nastro rosa", ballata decisamente più in linea con la produzione del "vecchio" Battisti, in cui le tastiere rimangono in secondo piano. Curioso poi che le liriche, pur incentrate, al solito, su una relazione amorosa, sembrino in realtà preludere all'addio con Mogol: "Chissà chi sei? Chissà che sarai? Chissà che sarà di noi? Lo scopriremo solo vivendo...".
"E già": la svolta degli anni 80
Chiusa la storica collaborazione con Mogol, Battisti decide di rompere definitivamente con il pubblico, con la fama, con le hit-parade (e, con ogni probabilità, furono proprio queste sue nuove velleità a provocare la rottura con lo storico collaboratore). Siamo a inizio anni 80, e la svolta, prepotente e radicale, è alle porte. Battisti, all'inizio del nuovo decennio, diventa un altro. E rivendica la propria libertà da qualsivoglia limite o esigenza commerciale: "Sì. Io la musica la concepisco come, credo, ogni lavoro debba essere concepito. Un modo per potersi rinnovare, per poter trovare nuovi stimoli, che non diventi mai noioso, pesante da portare avanti... Adesso sto scrivendo nuove musiche e ci saranno inevitabilmente molti punti in contatto con quello che ho fatto prima. Però ho già scritto quattro, cinque cose e mi accorgo che sono già da un'altra parte. Ho paura di chi ha idee molto precise"; e chiude definitivamente con la stampa, le esibizioni, le interviste: "Tutto mi spinge verso una totale ridefinizione della mia attività professionale. In breve tempo ho conseguito un successo di pubblico ragguardevole. Per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mete artistiche, di nuovi stimoli professionali : devo distruggere l'immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L'artista non esiste. Esiste la sua arte" (dalla sua ultima intervista, datata 1979).
Quasi inevitabilmente, gli orizzonti musicali si espandono ulteriormente: Battisti è affascinato dall'elettronica new wave, dalle produzioni di Brian Eno e David Bowie, dal new romantic, dall'elettro-pop che a inizio decennio, in varie forme, impazza oltremanica. La sua, in ogni caso, non si limiterà a essere un'operazione di adeguamento a nuove mode: con i "dischi bianchi", Battisti confermerà ancora una volta di essere in grado di rielaborare con grande originalità fonti e stili differenti, creando un amalgama inusuale fra la canzone pop, la poesia più ermetica, le fascinazioni elettroniche e certi sperimentalismi colti. Sarà portatata a compimento, insomma, l'opera di decomposizione della canzone melodica italiana già avviata qualche anno addietro. La radicalità di questa trasformazione suggerisce ad esempio il paragone con i Talk Talk. Due mondi differenti, indubbiamente. Però il paragone con Hollis e soci, e con la loro incredibile evoluzione, rende appieno l'idea di quanto Battisti trasformò sé stesso e la propria arte negli anni 80 e 90.
Tutto questo, in ogni caso, è ancora in nuce in E già, disco edito sempre dalla Numero uno nel 1982. I testi, per la prima volta, non portano la firma di Mogol ma della moglie del cantante, Grazia Letizia Veronesi (alias Velezia; già comparsa in desabiliè sulla copertina di Amore e non amore), anche se con il tempo acquisiranno sempre maggior forza le voci che vorrebbero attribuirne la paternità a Battisti medesimo. Voci corroborate dalla qualità in verità non eccelsa di alcune liriche, su tutte quelle della mediocre "Windsurf". E già è un disco fondamentale dal punto di vista storico: forse, proprio per questo, più importante che bello. L'importanza risiede nel suo sancire il passaggio definitivo di Battisti, coadiuvato per la prima volta da Greg Walsh, a sonorità completamente elettroniche. E già si avventura in territori ove testo e melodia possiedono una propria forza e si sviluppano in modo quasi free, rifuggendo in buona parte i ritornelli di presa immediata; e la stessa impostazione vocale diviene molto più fredda, distante e quasi descrittiva: viene meno il pathos che tanto aveva contribuito ai successi del decennio precedente.
Dal punto di vista qualitativo, tuttavia, sono pochi i pezzi veramente significativi: su tutti "Mistero", con liriche che rimandano in modo decisamente polemico e malcelato a Mogol ("Io mi ero lasciato affascinare/ da quel tipo intellettuale appariscente/ Che in fondo in fondo non valeva niente), "Scrivi il tuo nome" (pezzo in cui l'artista sembra voler ribadire la propria indipendenza intellettuale e artistica da Mogol, e dichiara in modo più o meno esplicito di volersi lasciare alle spalle il mondo, per lui definitivamente defunto, della classica canzone italiana), ed "E già", forte di una melodia riuscita e di un testo originale che, come per tutto il resto del disco, rifugge un vero e proprio tema narrativo ("E già/ che la verità/ è solo un'immaginazione/ finché il contrario non accadrà... Dopo che hai visto il mondo/ Chissà se è rotondo/ così sembra in fotografia... Pieno di mostri strani/ Ancor di più gli umani/ Molto al di là di ogni fantasia").
Come ammetterà lo stesso Walsh, il disco vale più per la freschezza dei suoni, perché si riappropria con originalità dell'universo elettronico all'epoca in espansione, che per la qualità delle singole tracce.
La collaborazione con Panella e i "dischi bianchi"
Lucio BattistiNel 1983, grazie ad Adriano Pappalardo, Lucio incontra per la prima volta il poeta ermetico, di origine romana, Pasquale Panella. Nasce allora il secondo importante sodalizio artistico destinato a segnare indelebilmente la carriera di Battisti, che a Panella affiderà i testi di tutti i suoi ultimi cinque album. Il primo, intitolato Don Giovanni, richiede un periodo di "gestazione" particolarmente lungo e complesso, e vede la luce solo nel 1986, quattro anni dopo E già. Ne varrà la pena: Don Giovanni, prodotto ancora da Greg Walsh, è il capolavoro dell'ultimo Battisti, il migliore fra tutti i "dischi bianchi" (così denominati per le copertine decisamente poco sgargianti e molto minimali). La maturazione, rispetto all'album precedente, ha del prodigioso. Si avverte non solo una maggiore dimestichezza con le nuove tecnologie elettroniche, ma anche il ritorno verso sonorità più classiche e melodie ben disegnate e distese; e forse proprio in questo complesso equilibrio fra sonorità wave (il disco suona "ovattato", e le tastiere la fanno da padrone: le sonorità sono tipicamente anni 80) e strumentazione (archi, sax)/modalità compositive che rimandano inevitabilmente al primo Battisti sta il segreto della sua bellezza. Lo stesso Panella ammetterà di aver scritto le liriche su melodie ancora canoniche nella forma, con tanto di strofa e inciso. E con piena ragione: a segnare il distacco più profondo dal Battisti classico, qui provvedono proprio i suoi testi. Testi che introducono la poesia colta nel mondo della canzone italiana, e che risultano decisamente sbalorditivi (lo stesso Battisti li descriverà come "incredibili"), distanti anni luce dalle innocue rime cuore/amore che da sempre la caratterizzano. "Le cose che pensano", forse la canzone migliore accanto alla title track, introduce il disco e costituisce l'ideale, meravigliosa overture di tutto il periodo "bianco". È una ballata costruita su un'armonia molto ricercata e dall'andamento sinuoso, arricchita da una tastiera che accompagna discretamente la voce, movendosi quasi in contrappunto rispetto ad essa. Il tema centrale parrebbe ancora esser l'amore. Ma l'utilizzo del condizionale è d'obbligo quando si legge "In nessun luogo andai/ per niente ti pensai/ E nulla ti mandai/ Per mio ricordo". Anche perché il pezzo, nel prosieguo, narra di teste che rotolano cacciando la lingua, e recita "La prima volta che ti vidi non guardai/ E allora non t'amai/ Tu Come stai? ...Son le cose che pensano te/ Quelle cose prolungano te": un autentico shock per chiunque aspettasse con ansia una nuova "Dieci ragazze".
Il secondo pezzo, giocato su una ritmica quasi dance e arricchito da un assolo di sax, si intitola "Fatti un pianto"; e, a dispetto del titolo, è quasi divertente nelle sue affascinanti immagini contese fra cibo e rapporti d'amore ("Le cose van fritte/ Coi sorrisi fai croquettes... E tu dici ancora che non parlo d'amore?/ Batte in me un limone giallo, basta spremerlo"). Incredibile è altresì il testo di "Equivoci amici" (l'incisione della parte vocale fu particolarmente complessa e richiese un lungo lavoro), che prende vita con un interminabile elenco (di equivoci o di amici?), per poi lanciarsi in un divertente scioglilingua ("Cassiodoro Vicinetti, Olindo Brodi, Ugo Strappi, Sofio Bulino, Armando Pende, Andriei Francisco Poimò, Tristo Fato, Quinto Grado, Erminio Pasta. Pio Semi, Ottone Testa. Salvo Croce, Facoffi Borza. Aldo Ponche (o Punch), Uno andò saldato, uno vive all'estro, uno s'è spaesato, uno ha messo plancia, e fa il trans-aitante, uno fa le more, uno sta invecchiando, perché è un nobile scotch").
"Don Giovanni" viene a ragione considerata una delle canzoni più belle dell'intero repertorio battistiano, forte di un andamento cadenzato e di una bellissima melodia. Anche qui il testo sorprende per complessità e genio: "Non penso quindi tu sei (quasi una negazione del "Cogito ergo sum" di cartesiana memoria), questo mi conquista/ L'Artista non sono io/ Sono il suo fumista); da notare, peraltro, un nuovo polemico riferimento al vecchio Battisti e a Mogol ("Che ozio nella tournée/ di mai più tornare/ Nell'intronata routine/ Del cantar leggero/ L'amore sul serio/ Scrivi/ Che non esisto quaggiù/ Che sono/ L'inganno/ Sinceramente non tuo").
Non mancano anche pezzi dalla chiara impronta jazz ("Che vita ha fatto") e altri in cui i due artisti si dimostrano consapevoli della portata rivoluzionaria delle loro creazioni ("Dopo di noi/ Il diluvio"). La critica ha correttamente osservato come il futuro della musica italiana passasse inevitabilmente da questo disco, contenente in nuce tutte le peculiarità, ancora oggi non ancora ben assimilate e comprese, dell'ultima produzione di Battisti.
Due anni più tardi (la cadenza verrà mantenuta con regolarità sino alla fine della carriera) l'ormai "introvabile" Lucio pubblica, sempre per la Numero Uno, il secondo disco bianco, L'apparenza, inciso anch'esso a Londra. L'album viene per la prima volta realizzato anche in formato cd, con Robin Smith, già arrangiatore di Don Giovanni, al posto di Walsh alla produzione. Dal punto di vista musicale, Battisti prosegue sulla retta via tracciata dal disco del 1986, accentuando tuttavia l'impostazione minimale, e perdendo quel tocco di ironia che aveva garantito una maggior fruibilità al lavoro precedente. Non mancano perfino accompagnamenti di stampo sinfonico. Semmai, a venir meno sono certe geniali intuizioni melodiche: il disco segna un ulteriore distacco dalla forma canzone; riprende il discorso interrotto, almeno in parte, con E già, e vira verso una concezione più astratta e libera della musica. Anche perché, per la prima volta, la stessa viene composta, in maniera al solito certosina (si racconta di un incredibile puntigliosità di Lucio, pronto a rincominciare tutto da capo innanzi alla minima imprecisione o al più piccolo suono non rispondente ai suoi desideri), seguendo il testo: questo sconvolge completamente la forma dei brani. Le linee melodiche divengono eteree, impalpabili, sviluppate fuori dagli schemi tipici: lo spartito diventa completamente imprevedibile negli svolgimenti armonici, negli intricati incastri della struttura melodica, nella totale assenza di strofe e refrain ortodossi.
Pacifico che i fan del vecchio Battisti storcano il naso davanti a tante e tali innovazioni. E pacifico altresì che il disco richieda diversi ascolti prima di svelarsi in pieno, tanto risulta cerebrale, tanto sembra dissolversi a ogni ascolto e rifiutare di stamparsi nella memoria.
L'introduttiva "A portata di mano" è, in questo senso, emblematica: Battisti ha dimenticato di comporre incisi e ritornelli, e chiarisce una volta di più che i tempi di "Acqua azzura/ Acqua chiara" sono definitivamente morti e sepolti. Assolutamente originale è anche il secondo pezzo, quella "Specchi opposti" in cui la musica si fa puramente descrittiva, e in cui i tappeti di synth accompagnano in maniera quasi impercettibile una linea melodica che sembra abbozzare un qualche passaggio memorabile per poi dissolversi nel nulla. Bellissimo il testo, costruito sull'immaginario dialogo fra due personaggi, volto a rendere il muro di incomunicabilità che li separa ("Ero distratto/ Tu ti davi da fare/ E non c'eri affatto/ Oppure ti muovevi con un ronzio d'insetto che m'assopiva"). Stupenda è anche la title track, in cui un frammento melodico minimale viene riciclato all'infinito, mentre il testo tratta con distacco ed eleganza il tema della poetica del dubbio, attraverso un susseguirsi di immagini surreali. Altro gioiello è "Per nome", dove Battisti riesce a costruire un ipnotico crescendo di basi elettroniche, arricchite da sonorità orchestrali sulla falsariga di Don Giovanni, dando vita a una sorta di madrigale, stupefacente nella sua distaccata bellezza.
L'apparenza segna un punto di non ritorno per il Battisti bianco: abile nel padroneggiare un nuovo linguaggio, dimostra di voler superare tutti i dogmi della canzone leggera, riplasmandoli a un livello elettronico e futuribile, e abbandonando definitivamente anche quel tocco classico che aveva conferito al precedente lavoro un fascino irresistibile. I lavori più radicali, come palesato dal techno-pop e dalle ritmiche funky mirabilmente assemblate in "Dalle prime battute", sono ormai alle porte. Nel 1990, infatti, Battisti stupisce nuovamente pubblico e critica proseguendo l'opera di sgretolamento di tutti i dogmi del pop italiano con La sposa occidentale (questa volta sotto le insegne della Cbs). La produzione viene affidata nuovamente a Greg Walsh. Pesantemente stroncato dalla critica dell'epoca, ancora affezionata alle melodie cristalline di quasi due decenni prima, è un lavoro decisamente complesso e radicale, tramite cui Battisti sembra voler lanciare il definitivo guanto di sfida. E questo nonostante le atmosfere suonino più divertenti e divertite rispetto a due anni prima, riallacciandosi, da questo punto di vista, alle atmosfere di Don Giovanni. Le costruzioni armoniche si fanno minimali, superficiali e al contempo complesse: Battisti e Walsh rovesciano ancora una volta tutti i dogmi della canzone grazie alle nuove tecniche offerte dagli strumenti e dalla musica elettronica, e si limitano a utilizzare le tastiere e una batteria, abbandonando gli archi che avevano arricchito le sonorità degli ultimi due album. Nonostante questo, "Tu non ti pungi più" riesce ancora a regalare una melodia umana e financo divertente, e la title track, con i suoi straordinari versi, sarà persino passata in radio con una certa frequenza (celebre diverrà l'inciso "La sposa occidentale che sembra quasi ridere/ E invece lei respira/ Quasi piangere, ma gira/ Dall'altra parte il viso ma, ritorna/ Portando sue notizie inaspettate/ Amando tutto ciò che adora/ Chiama con nomi fittizi le cose/ Così semmai le rose/ son spasimi per ora"). Al solito, Panella parla d'amore senza all'apparenza voler minimamente coinvolgere, dal punto di vista emotivo, l'ascoltatore. Anche "Timida molto audace", con i suoi ariosi schemi armonici e con la ritmica incessante, ha un'atmosfera quasi spensierata. "Campati in aria" è invece caratterizzata da una ritmica costante in 4/4, scandita dai sintetizzatori, e si avvicina con decisione all'universo techno-pop. Il capolavoro del disco è però "Potrebbe essere sera", in cui le basi elettroniche costruiscono un universo sonoro al solito minimale ma al contempo coinvolgente, così come i suoi intricati e geniali versi ("Potrebbe essere sera/ Potrebbe essere una sera alabastrina... Viola è il colore della sera/ L'ora in cui tutto resta/ Non tanto com'era, ma come sarà/ Rinviate le schegge, s'infrangono come vetrate/ Le saracinesche/ ...Cercare gli aggettivi catarifrangenti, infranti e lucenti").
Cosa succederà alla ragazza, celebre per la copertina completamente bianca ove è presente solo la scritta "C.S.A.R.", è il penultimo lavoro di Battisti, e vede la luce nell'ottobre del 1992, sempre su Cbs. Ancora una volta l'artista reatino sembra voler radicalizzare il proprio discorso musicale, e porsi persino oltre quelle poche invenzioni melodiche ancora memorizzabili del precedente lavoro. Il ritmo, secco, arido, ridotto all'osso, diventa il protagonista assoluto di quasi tutte le composizioni. Le basi, capaci di combinare funky, dance, techno, hip-pop, e persino certe inflessioni dub, rappresentano il vero tratto distintivo del lavoro: le sonorità sono sempre più gelide, ma anche ipnotiche e ossessive, e persino il modo di cantare di Battisti rifugge qualsiasi stilema del "bel canto" per divenire sincopato e a tratti scandito ai limiti del rap.
L'introduttiva title track, fra i pezzi più riusciti del disco, è emblematica in tal senso. Il brano si costruisce in modo progressivo e dinamico: il basso si produce in un giro di chiara matrice funky, sul quale Battisti costruisce una complessa struttura ritmica e armonica. Mentre il testo di Panella descrive una figura femminile (la ragazza del titolo) e l'ombra di un'incombente violenza che la insegue. "La metro eccetera" presenta una struttura più canonica, una melodia quasi orecchiabile, ed è interessante nelle solite complesse articolazioni del testo, volto a rendere il vuoto della metropolitana, luogo ove migliaia di persone si incontrano senza mai veramente conoscersi. "Cosa farà di nuovo", al contrario, sembra avvicinarsi con decisione, e in maniera del tutto inusuale per un artista italiano dell'epoca, all'universo hip-pop, senza rinunciare a strutture ritmiche piuttosto complesse e intricate. "Tutte le pompe" è un energico funky, costruito tramite la tecnica del cut-up, mentre "Però il rinoceronte" sorprende sia per le inaspettate traiettorie dub sia per il testo, che richiama i non-sense di "Equivoci amici". "Ecco i negozi" è praticamente un pezzo rap, in cui tuttavia le complesse e oscure basi elettroniche finiscono con il nascondere la voce di Battisti.
Il successo, come prevedibile, non arride a "C.S.A.R.": e così Battisti e Panella abbandonano la Cbs/ Sony per ritornare tra i caldi guanciali della Numero Uno, dedicandosi alla realizzazione del disco che chiuderà la ultra-ventennale carriera del cantautore di Poggio Bustone, Hegel. La scelta del titolo non è casuale: secondo alcuni illustri intellettuali italiani, infatti, si è trattato di una scelta "cifrata" per le nuove generazioni, distanti ormai anni luce dalle passioni pseudo-marxiste di fine anni 60. Anna Lessi, lettrice d'italiano presso l'Università di Tubinga, in Germania, conquistata dai testi di Panella, arriverà a definire Hegel un'operazione culturale di grande portata storica, in grado di travalicare tutti i limiti della moderna cultura del vecchio continente. Tanto i testi quanto le musiche, in effetti, divengono sempre più astrusi e complessi: Battisti e Panella tendono ormai definitivamente verso una forma d'arte puramente astratta e descrittiva, sgretolando completamente il "giocattolo pop" e raggiungendo risultati che, seppur difficili e poco coinvolgenti emotivamente, ancora oggi stupiscono per l'incredibile capacità di porsi al di là di tutte le convenzioni stilistiche e di tutti i dogmi imperanti nella musica di consumo. "Almeno l'inizio", il pezzo introduttivo, è un techno-pop volutamente freddissimo, che sfugge a qualsiasi tipo di catalogazione. Il testo costituisce una sorta di atto di ribellione contro i limiti posti dalla canzone. Se la title track ritorna su ritmiche vicine al dub, "Stanze come questa" è una cervellotica funky-dance che riesce nell'impresa di riassumere un po' tutte le precedenti esperienze del duo. "La bellezza riunita" riesce invece a riproporre un frammento, quasi inintelligibile, di melodia, ed è impreziosita da un testo meraviglioso ("Mi apparisti vestita/ E più carpita da me/ Più che tu non lo fossi/ Misurarti la vita/ Mi pare proprio che sia/ Tutto quello che posso/ La bellezza riunita"). "La voce del viso" è un'interessante commistione fra il gelo delle sonorità elettroniche e ritmiche incisive, in pieno contrasto con la grande espressività delle liriche che magnetizzano completamente l'attenzione dell'ascoltatore.
Com'è ovvio, il disco, all'epoca, non viene capito. E anzi la critica lo bolla apertamente come "cervellotico" e privo di qualunque spunto d'interesse, decretando così la definitiva morte commerciale di Battisti. Non mancheranno, tuttavia, alcune voci fuori dal coro: Tortarolo definirà Hegel il lavoro più compiuto dell'intero catalogo Panella-Battisti; e parlerà di atmosfere vertiginose, di una cattedrale nel deserto "in cui la genialità di Battisti prepara l'ennesima fuga solitaria", alludendo ai possibili sviluppi futuri della sua arte. Non sarà così, purtroppo: Hegel è destinato a rimanere il definitivo testamento spirituale di Lucio Battisti, che morirà il 9 settembre del 1998.
Di lui resteranno nella memoria collettiva, per chissà quanti altri decenni, alcuni indimenticabili classici dell'epoca Mogol. Resteranno "La canzone del sole", "Emozioni", "Fiori rosa/ Fiori di pesco", e tante altre composizioni dimostratesi in grado di segnare un'epoca, di evocare immagini forti in cui quasi ognuno di noi, almeno per una volta nella vita, ha potuto riconoscersi. Ma resterà anche il suo coraggio. La sua ferrea volontà di chiamarsi fuori da un sistema proprio all'apice del successo, per poi stringere un sodalizio con un altro artista solitario, e scrivere alcune fra le pagine più complesse e indecifrabili della storia della canzone italiana. Resterà, soprattutto, una discografia straordinaria, che lo colloca di diritto nell'olimpo del Novecento musicale italiano.
(fonte ondarock.it)
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