Estate 1973 Sulla pista da ballo del Baccarà, discoteca di Lugo di Romagna, riviera romagnola, si presenta un personaggio dal look eccentrico, tra piume, una tutina attillata e pailettes.
Si siede a terra, gambe incrociate come un pellerossa, e comincia a cantare una canzone con un testo a dir poco disturbante, non proprio in linea con quello che passano le radio: “Qualcuno con un sorriso addosso / mi dice: Giochiamo insieme dai / ti compro un aquilone rosso / se lo vuoi / avevo appena aperto gli occhi / ma il buio mi raggiungeva già / due mani rubavano al mio corpo / l’innocenza”. Qualcuno urla: “Ma ‘ndo vai?”. Qualcun altro insiste: “C’hai rotto”.
I fischi non lo scoraggiano. Tutt’altro. Sceglie di chiamarsi Zero, .Renato Zero, perché è esattamente quello che gli gridano dalle platee quando sale sui palchi ancheggiando vestito di struzzo: è con quel nome - d’arte - che sconvolge l’Italia cattolica e comunista di un decennio pesantissimo come gli Anni ’70 sulle note di canzoni rivoluzionarie e scioccanti, rispetto ai tempi, come “Mi vendo”, “Triangolo”, “No! Mamma, no!”, “Tragico samba”, “Morire qui”, “Sesso o esse”, rompendo ogni convenzione.
A raccontare l’aneddoto risalente a quell’estate di cinque decenni fa è lui stesso, riflettendo sui nipotini che in un modo o nell’altro si ispirano a lui nel modo in cui si divertono a provocare: “Una volta c’erano tantissimi esperti nelle case discografiche che ti davano i giusti consigli e ti aiutavano a trovare la tua strada artistica da percorrere. Oggi non è colpa di Rosa Chemical o di altri ragazzi, ma di chi crede che la musica sia un mestiere improvvisato. Assolvo questi ragazzi, perché mi rendo conto che non riuscire a trovare una propria identità è un fatto grave”.
Nasci incendiario, muori pompiere, verrebbe da dire. Non è la prima volta che il Re dei Sorcini si lancia in invettive del genere, dal sapore passatista. Gli si vuole sempre bene, ma è innegabile che da anni le sue conferenze, quelle legate alla presentazione di un nuovo album (l’ultimo, “Atto di fede”, era un progetto di musica sacra) o di un tour, somigliano a sermoni dai contenuti reazionari, in cui parallelamente a riflessioni sulla presunta mancanza di inventiva e di estro delle nuove generazioni, Zero critica impresari, discografici, radio, dirigenti televisivi: “Non si scrivono più canzoni come ‘Il nostro concerto’, ‘Il cielo in una stanza’ e ‘I migliori anni della nostra vita’ - dice lui, che
forse in questi anni ha tenuto le antenne basse, per lasciarsi sfuggire pezzi come “Nessuno vuole essere Robin” di Cesare Cremonini, che forse in passato non avrebbe sfigurato nel suo repertorio, “La verità” di Brunori Sas, “La vita splendida” di Tiziano Ferro, per citarne alcune - da parte mia c’è questo voler sottolineare il bisogno di riaffermare il valore assoluto della melodia. Siamo eredi di una tradizione che non deve essere tradita. Abbiamo visto i nostri De André, Guccini e Lauzi essere abbandonati, finire nel dimenticatoio perché, pur essendo libere, le radio hanno perso il buonsenso e l'abitudine di dimostrare che questo paese ha cantato molto alto. L'immondizia, per cortesia, lasciatela agli americani o agli inglesi: nel loro paese trattano solo musica di altissima qualità e a noi ci mandano lo spezzatino”. Ma se stavolta, invece, su quello che ha detto su Rosa Chemical, Zero avesse ragione?
Al di là del tono paternalistico usato, le riflessioni di Zero lasciano aperte delle riflessioni. Ha senso paragonare le provocazioni di Rosa Chemical a quelle del Re dei Sorcini ai tempi di “Triangolo” e “Mi vendo”? “Se rispetto ai rispettivi periodi storici è più rivoluzionario Rosa Chemical che canta ‘da due passiamo a tre, più siamo e meglio è’ e bacia in bocca Fedez o io che cantavo ‘Triangolo’ e ‘Mi vendo’? Non me la sento di fare nessun paragone”. Ma le critiche, a leggerle bene, non sono distruttive Anzi: “La mia missione non erano piume e pailettes, ma ‘Il cielo’ e ‘Più su’.
‘Triangolo’ e ‘Mi vendo’ erano elucubrazioni divertenti in cui mi presi una licenza e preferii giocare con l’ironia. .Ai ragazzi di oggi consiglio di essere un po’ più pronti prima di essere mandati allo sbaraglio. Va bene il look, ma ci vuole lo spessore artistico, perché senza di quello si campa una stagione e basta”, spiega il cantautore romano, rivendicando che oltre piume e pailettes c’era molto di più (non ha bisogno certo di avvocati difensioni: i suoi dischi sono lì, i video delle sue storiche esibizioni pure, e andrebbero riascoltati e rivisti, per non continuare a ripetere l’errore di considerare Renato Zero un cantautore di serie b). Non esattamente marketing. E comunque tra “da due passiamo a tre / più siamo e meglio è” e “il triangolo no / non l’avevo considerato / d’accordo ci proverò / la geometria, non è un reato”, rimane sempre più autentico l’originale.
In fondo il messaggio è lo stesso che lanciò quando due anni fa riservò un giudizio tranchant a un altro nipotino, Achille Lauro, che non è che dopo “Me ne frego” abbia raggiunto chissà quale spessore cantautorale con i suoi successivi lavori: “Io con le piume non giocavo a fare il clown. Cantavo storie di pedofilia e le problematiche della gente di periferia, delle borgate, di chi veniva emarginato in tutti i sensi E quindi credo che questa distinzione sia già di per sé utile.
Io, che sono stato giudicato fino a stamattina, non posso certo permettermi di giudicare un altro artista. Amo tutti quelli che vogliono fare questo lavoro, a condizione che sappiano che la gente non va presa per il culo”. Rosa Chemical è stato diplomatico, nella risposta: “L’ho sempre citato in tutte le interviste. Ho grande stima per Renato. Mi è dispiaciuto leggere quelle cose, non è stato affettuosissimo. Ma io resto affettuoso, invece”. Achille Lauro fu più sibillino, invece: “È anche grazie a Renato Zero che quello che faccio oggi è così apprezzato dalle generazioni più grandi. Sono cresciuto con il manifesto di libertà de ‘Il triangolo’, come tutti i miei coetanei, ma ancora di più sono rimasto folgorato nel rivedere l’esibizione quasi metafisica di ‘Spalle al muro’ al Festival di Sanremo del ’91. Un brano profondo, struggente, .uno dei pochi brani italiani che riesce a metterti davanti al vero significato di fare i conti con il tempo che passa”. Touché.
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(fonte rockol.it)
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