Don DeLillo non poteva certamente saperlo quando la critica si era spellata le mani all’unanimità per quella sua grande opera pubblicata nel 1985, affrettandosi a annoverarla tra i capolavori della letteratura post-moderna. Ma “White noise”, oggi, per l’industria della musica è qualcosa che va ben oltre il post-moderno. Significa, direi, quasi post-streaming.
Succede che il combinato disposto di covid 19 e di SEO ha tramato alle spalle di Spotify, diciamo così, rendendo parecchi non-brani dei grandi successi sulla sua piattaforma. Successi senza autore, senza musica, senza fama. Ma con tanti plays e tante royalties attaccate.
Definisci “rumore bianco”, allora. Wikipedia dice: “Il rumore bianco è un particolare tipo di rumore caratterizzato dall'assenza di periodicità nel tempo e da ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze”. E qui se ne può ascoltare un esempio: praticamente, elettricità statica.
Un paio di domande per chi legge, ora. (1) L’artista “White noise baby sleep”, lo conoscete? (2) E il pezzo “Clean white noise loopable with no fade”…?
Chi ha risposto sì alla prima domanda è:
(a) bugiarda/o,
(b) lavora in discografia come data scientist o A&R.
Chi ha risposto sì alla seconda è:
(a) stressata/o,
(b) insonne,
(c) fa meditazione o yoga.
Infatti il suddetto artista non esiste. Esiste solo nel suo universo virtuale e digitale. E il suo nome è un parto del SEO: un riuscitissimo intercetto del bisogno di moltissimi individui di cercare su Google suoni suadenti, adatti alle tecniche di rilassamento e meditazione o confezionati per favorire il sonno. Una necessità molto diffusa e ulteriormente acuita dalla pandemia, che ha mutato abitudini, bioritmi e equilibri di tutti noi. Una necessità soddisfatta in prima istanza dall’applicazione basilare delle regole della Search Engine Optimization.
Identico principio per il titolo. In particolare, quell’aggiunta pleonastica di loopable la dice lunga (tutto è loopable su Spotify, ma evidentemente la gente cerca soluzioni per musica da mandare in loop e conviene fornirle a partire dal titolo).
E il contenuto? Quello – il suo e quello di altre centinaia di suoi cloni creati per lo stesso scopo – è poco più lungo del titolo e somiglia a un ronzio, ricavato magari da un ventilatore, da uno sciabordio, da un elettrodomestico, dal vento o da un mix di tutto ciò abilmente rielaborato e cucito in un loop che continua ad andare in sottofondo. Fino a superare su Spotify 400 milioni di plays.
Ma è legale? Beh, sì. Possiamo tutti produrre, stampare e distribuire rumori (o assenza di rumori), anche senza il genio e il senso dell’umorismo di Frank Zappa.
E si può fare su Spotify? Beh, no. In effetti Spotify vieta espressamente l’utilizzo di soluzioni SEO per indicare nomi di artisti o titoli di brani.
(E' un po' meno chiaro, riflettendoci, se questo divieto implichi, dato che cerca di disciplinare la materia, che sia invece comunque lecito approdare sulla propria piattaforma inventandosi artisti che non esistono, con relativi contenuti annessi. Hmm).
Un anno fa, in tempi diversi e meno sospetti, ci eravamo occupati di fake streams. Quello dei brani quasi silenziosi, assimilati al white noise, è un tema contiguo, che seguiamo da mesi e la cui portata va oltre il risvolto truffaldino dell’intrapresa (v.
sotto). E’ un tema che conduce dritto al mondo delle royalties e dei diritti e che illumina il settore semi-sommerso (quanto a visibilità, certamente non quanto a produzione) dell’intelligenza artificiale applicata alla musica. Perché, quando sarà più matura, l’AI potrebbe fare barba e capelli al SEO e diventare oggetto di interesse e applicazione tra i veri professionisti del publishing e della musica registrata, seguendo la consueta traiettoria che vede startup e contrabbandieri aprire e occupare un terreno nuovo con un po’ di intuizione e tecnologia, per poi lasciarlo agli aventi diritto che lo rivendicano con denaro, quote di mercato e normativa aggiornata.
Oggi i protagonisti del segmento dei non brani senza musica che generano royalties sulle piattaforme di streaming sono diversi. I campioni sono quelli della Peak Records. Chi sono? Lo avrete già capito. Se il brano non ha musica e l’autore non esiste…. La label che online non è reperibile e non ha nemmeno un sito, però, è la propaggine virtuale di un’aziendina britannica che, al contrario, vive e lotta con noi. Anzi, lotta e vince se ha salutato il 2020 con un post in cui si auto-celebrava, festeggiando i tre miliardi di stream. Ora, figuriamoci se posso sapere quello che non dicono, e cioè dove li hanno realizzati questi stream. Ma, poniamo: se fossero stati generati quasi equanimemente tra Spotify, Amazon e Youtube, staremmo parlando di una cifra che galleggia intorno alla decina di milioni di euro, mal contati e rozzamente stimati. Denaro interessante.
Tra meno di un mese – il 3 febbraio, quando Spotify pubblicherà i risultati del quarto trimestre 2020 – questo argomento ci tornerà in mente.
(fonte rockol.it)
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